I naviganti della mailing list hanno giocato ad “adottare” le canzoni di Ivano Fossati.
Molti di noi hanno scelto le proprie canzoni preferite raccontandone il motivo. Poteva essere musicale o riguardare il testo, spesso era legato ad un preciso momento della nostra vita. Tante anime, tanti modi di sentire e punti di vista diversi..

Quelle che seguono sono le nostre Adozioni.



Questi posti davanti al mare

Questi posti davanti al mare: un adozione, frutto di un impressione, scolpitami da questa canzone durante un pellegrinaggio di fine settimana di alcuni anni fa…  
Per quelli di Torino e dintorni, il mare di fine settimana sa di Liguria, del suo ponente, delle spiaggie ghiaiose di certe località dal nome che rievocano colonie estive di quando vestivi col grembiulino: Loano, Finale, Alassio, Albenga, Ceriale, Andora… Forse perché, da Torino, sono le più facilmente raggiungibili, disegnano quasi una linea retta che va a congiungersi con questa porzione di riviera. 
Io parlo degli avventurieri che lungo la Torino-Savona (To-Sa, per comodità) in poco più di un’ora e mezza (io, quasi sempre tre) vanno a rosolarsi se estate, ad immalinconirsi se inverno. A questi vorrei dire che la To-Sa è una beffarda linea d’asfalto ad ostacoli, che occulta, e non ci fa raccontare. Ti sembra che sia Piemonte anche se un cartello ti dice il contrario. Il paesaggio dipinge qualche chilometro di colline che da queste parti si vantano a montagne, di un verde mai interrotto da tracce d’uomo. Poi beffardamente leggi di un’uscita a Savona e la Liguria ti sembra tutta li, più stretta di come te la disegnano le cartine Touring Club. Qualcosa sfugge. Capita sempre per caso; una coda chilometrica, un solleone, una fiera gastronomica, per non pagare l‘importo completo del pedaggio. Decidi di uscire al casello di Ceva, di Millesimo, ti lasci dietro i colori dell’alta langa ed il muggito del bue di Carrù e cominci ad arrampicarti seguendo quelle sporadiche indicazioni che ti parlano di lontane località marittime. Tu t’inerpichi, azzardi in qualche bivio, ogni tanto qualche grumo di case impossibili di dicono che sono un paese. Qualche anziano armato di secchio e bastone compare in mezzo alla strada, ti guarda come fosse arrivato il carro della festa. Lo guardi e ti chiedi se hai sbagliato strada. Quella faccia sa di montagna più che di mare, lo vedi dalle rughe del volto, sembra che freddo e sole l‘abbiano solcato con storie diverse eppure un cartello ti dice che Alberga è a 20 km. Suvvia, magari 200.. Salite a tornante tra aghi di pino e nidi di ragno, colline e discese, paesi improvvisi di epoche passate, antichi castelli ridotti a ricordo, ristoranti ed osterie che  parlan di funghi, cinghiali e rossi robusti emigranti dal Piemonte, attecchiti quanto basta. Eppoi, curve, ombre di pinete, spade di luce ed un cielo come se ammonisse una rivelazione.  
Quando ormai, vinto e stupito dall’orizzonte che si perde e sfuma, da un cartello che t’avverte che il Pollupice lascia spazio all’Ingauno… dietro una curva, improvvisamente.. il mare.  


Sigonella

Ricordo quanto ero eccitato il giorno che mi sono comprato “Lindbergh, Lettere da sopra la pioggia”. Che titolo! E che bel libretto, tutto giallo e blu, con lo sfondo che mi richiamava alla mente le mappe, le cartine de “La pianta del te’ “, questa volta pero’ in versione moderna e occidentale.. ad inizio secolo ma potrebbe essere anche oggi, forse domani. Erano i tempi della scelta dell’obiezione di coscienza, della consapevolezza politica, del cominciare a sentirmi parte di qualcosa, le prime appartenenze, le piu’ forti. Il caso volle che in quei mesi mi accompagnasse il disco piu’ politico, “piu’ forte” di Fossati. Il disco piu’ pacifista, piu’ schierato a sinistra. Sicuramente il piu’ esplicito. Piccoli gioielli che ci richiamano alla tradizione popolare, alle lotte di liberazione delle donne, degli immigrati, degli ultimi, dei diversi. Prese di posizione precise contro molti assiomi e assurdita’ del nostro vivere e pensare quotidiano. Attenzione verso le fedi troppo radicate che rischiano di non farci accorgere delle priorita’ della vita (e cio’ che conta ci puo’ “appassire” tra le mani). Fortemente contro la guerra (in almeno tre canzoni tra cui l’unica cover del disco, l’imprescindibile “Il Disertore” di Boris Vian). Storie di vita “controvento”. L’album piu’ vicino alle tematiche DE ANDRianE, se vogliamo.. ma squisitamente fossatiano, nel modo di scrivere sia i testi, sia le musiche. E che musica! e che musicisti!!! Forse proprio perche’ Lindbergh capito’ in quel preciso momento della vita, e’ rimasto impresso a caldo nel mio DNA. Sembrava incredibile che il mio autore preferito affrontasse gli argomenti che erano cosi’ importanti per me. E che lo facesse portando poesia e melodia a quel sentire, studiare e ragionare, discutere e sperare, sentire e, spesso, non riuscire a comunicare. Non c’e’ canzone che non mi smuova un mondo di sensazioni, ricordi e passioni. E in questo vortice emotivo ce n’e’ una che forse “mi ha cambiato la vita”. 
Sigonella. Sono molto legato a questa piccola canzone, questa lettera cantata che mi colpi’ subito, al primo ascolto. Intanto per come e’ composta e realizzata. Le atmosfere, la voce che comincia raccontando e poco dopo sale, si appassiona sempre di piu’, quasi urla: non e’ solo rabbia,  e’ anche speranza! Mi piace la scelta di raccontare prendendo spunto da un luogo in cui la vita e’ sospesa e la paura e’ sempre in agguato. La base Nato e il vulcano non sono cosi’ diversi, entrambi cosi’ potenti e sfacciati nel loro creare quel senso di provvisorieta’, di insicurezza, di non serenita’. Forse e’ una lettera - questa - da sotto la pioggia. Dove neanche la natura riesce a darti la sensazione di primavera.
Ah, se riuscissimo a ritrovare la speranza... Se solo capissimo, tutti quanti, che basterebbe volerlo e potremmo volare!


Notturno delle tre

Ho iniziato ad ascoltare Fossati all’epoca di Lindbergh - Lettere da sopra la pioggia. Ad aprirmi per la prima volta le orecchie e il cuore, a farmi tuffare vestita nell’ascolto di questo che avevo sempre considerato un cantautore “noioso” è stato ovviamente un amore. Ovviamente un amore sbagliato.
Lui abitava proprio vicino a casa mia, e quando uscivamo insieme mi riaccompagnava fino a pochi passi dal portone. Invece di salutarmi, canticchiava spesso una canzone, sempre la stessa. Anche se non erano quasi mai le tre.

La ragazza lo sa
Chi sono, che sono? Non so più niente

Come non farmi dormire
Chissà se anche lui non dormirà stanotte
La ragazza lo sa e lo sapeva già bene
Se solo l’avessi saputo
Ancora prima di uscire
Prima di uscire…
Lei cammina dondolando
Sto quasi barcollando, mio dio
E non ancora al portone
Quanti passi ancora fino al portone
Sperimentava su me
Se lui è ancora lì e mi guarda, mi sta guardando
Il passo poco innocente
Sembro la solita bambina stupida
Di chi innocente non è
Semplice, innocente, ma lui con che occhi mi guarderà
La ragazza ci lascia qui
Voglio scappare, scappare via
Nella casa deserta
Il silenzio di questa casa gli farà compagnia
Senza luce né candela
Con questa luna prepotente
E una persiana che rimane aperta
Che entra dalla persiana aperta
Tutta la gente non sa
Se mi vedessero adesso
Dietro quale segreto, dietro quale divieto
Ma nessuno capirebbe
Si perde una notte così
Non deve finire, non ancora, questa luce bianca non può perdersi
Tutta la gente non sa
Chi ascolterebbe il grido dei miei occhi
Dietro quale dolore
Chi ne sentirebbe il dolore
Se dolore c’è, quando son quasi le tre
Se dolore c’è
La ragazza invece lo sa
Ora lo so, so che è impossibile
Lei che cammina dondolando
Solo gli ultimi passi, devo riuscire a non barcollare
Sulla strada di casa in qualche vetrina buia
E queste vetrine buie
Si starà specchiando
che riflettono senza posa tutta la mia paura
E passerà un lampione, un muro, un ponte, un bar
I lampioni che mostrano i miei occhi spaventati, ma i muri non giudicano
Poi passerà anche me
Chi si nasconde solitario nel buio dei suoi pensieri
E quasi senza dolore anche questa notte
Quasi senza dolore
Passeranno le tre
Fra poco la luce crudele dell’alba arriva
E passerà un’automobile e un’ombra e un tram
E tutto ricomincia
Poi passerà anche me  
Torneremo a nasconderci nelle nostre ombre senza capirci  
E quasi senza dolore anche questa notte  
Quasi senza dolore  
Passeranno le tre  
quasi  
La ragazza lo sa  
Adesso lo so  
Come non farmi dormire  
So che nessuno dorme sereno  
La ragazza lo sa e lo sapeva già bene  
Avrei dovuto saperlo bene
 
Ancora prima di uscire  
Ancora prima di capire
 
Lei cammina dondolando  
Saluto la notte mentre cammino
 
E non ancora al portone  
Ormai manca poco al portone
 
Sperimentava su me  
Se lui capisse la paura nel mio passo
 
Il passo poco innocente  
Un passo poco innocente
 
Di chi innocente per fortuna  
Di chi innocente ormai  
Non è  
Non può più essere


Carte da decifrare


Era ancora inverno quando questa canzone passava dal materiale all’immateriale, da un supporto di plastica all’aria che circonda e che si spande per la stanza.  Perche’ la musica è così: è liquido denso che si attacca alla pelle, e che entra nel cervello, nelle molecole. E nell’Anima.     
Erano notti d’inverno quando mettevo le cuffie, spegnevo tutte le luci tranne quella della piccola lampada sul pianoforte. Mi sedevo su quello sgabello così importante, che mi fa specchiare ogni volta su quel mio amico di legno nero, lucido.  Sì, perche’ il pianoforte è sempre lì, non puoi fare finta di non vederlo: non puoi riporto in un bell’astuccio, e nasconderlo in un angolo.  E’ sempre lì. Che ti parla in silenzio anche se ti tappi le orecchie.    
E proprio seduta di fronte a lui ti ho scoperta.  Mia piccola sentinella che va all’avanscoperta, mia piccola dolcissima, amatissima traditrice.  Eri già lì a dirmi che il mio amore non sarebbe vissuto abbastanza per trascorrere la notte.  Eri già lì a dirmi di nascondere i coltelli, perche’ l’avrei tagliato.  Di chiudere la bocca, di prendere le parole che non ho mai avuto.   Eri già lì a dirmi di preparargli quella croce, dove l’avrei inchiodato.   Eri già a lì a dirmi, che dopo le mie “ore e ore”, l’avrei ucciso per una nuova alba, per nuovo amore, per nuovo sangue.    
E bisogna toccare il fondo per trovare dentro sè stessi le frasi di quell’addio.  Di quel “perdono. Se no ho avuto il tempo di imparare”.   
Sono carte da decifrare. Da decifrare.   
Non si nascondono. Non si bruciano. Non si gettano.  
Le devi decifrare.   
Non mi dai un’altra scelta.  Se non nascondermi in un angolo di strada.  Ed accostare il tuo cammino. O rimanere nell’ombra. 


Dieci soldati

Mio fratello si era comprato il 45 giri di “La mia banda suona il rock” forse con qualche anno di ritardo (poteva essere il 1981 o l’82), ma ricordo che era un disco a cui teneva molto e che io invece detestavo cordialmente, dato che mi sembrava una cazzata di quelle un po’ alla moda e in effetti in quel periodo era un vero tormentone. Ma a volte debbo riconoscere che F. ha delle intuizioni notevoli: o forse è solo questione di ascoltare le cose, più cose possibili, con la mente sgombra da pregiudizi. Fatto sta che dopo qualche anno (era ormai il 1986) mi torna a casa con un intero 33 giri di Fossati, dal titolo “700 giorni”. La prospettiva di sentirmi un intero LP di costui mi sembrò terrificante, anche perché Francesco quando cominciava a sentire un disco poteva sentirlo 3-4 volte al giorno per vari giorni, come infatti puntualmente avvenne.. Senonché, senti che ti risenti, non potei negare a me stesso che tutto sommato era abbastanza decente... ma che dico, anche discreto, se vogliamo... anzi, decisamente bello... di più, era stupendo!!! Cazzo, era un capolavoro, quel disco!!! Roba così ne girava (e ne gira) davvero poca!!!  
Intanto, un titolo formidabile: “700 giorni”, scritto così, con le cifre, non con le lettere... ma che vorrà dire, che saranno ‘sti 700 giorni, dedicati peraltro “a Gildana e Claudio”? Chi fossero costoro l’avrei scoperto solo tempo dopo, così come il fatto che i 700 giorni erano l’intervallo trascorso dal disco precedente, “Ventilazione”, del 1984. Poi una copertina bellissima, un disegno di due volti di ragazzi e sul retro, come se la vista si aprisse, tutta la scena di cui i due volti erano un particolare, una scena in un angolo di una città, con gente che cammina, ragazzi che giocano, con un senso di grande dinamismo che rispecchia alla grande l’atmosfera di molta parte del disco.  
E che dire delle canzoni? Solo 8, un disco molto corto (meno di mezz’ora!) ma ha ragione Battiato, il valore di un disco non si misura un tanto al chilo se tra le canzoni ce ne sono alcune di livello eccelso, come “Buontempo”, “Gli amanti d’Irlanda” o la celeberrima “Una notte in Italia”. Ma a me ha fatto sballare sempre e soprattutto “Dieci soldati”.  
Perché musicalmente è stupenda, e il testo... il testo è di quelli che appartengono alla mia categoria preferita: non ha un senso facilmente definibile o sintetizzabile... Anzi, “Dieci soldati” suggerisce sensazioni e forse situazioni ma non in modo diretto, semmai attraverso carrellate d’immagini, è in un certo senso una canzone cinematografica. Indubbiamente è una canzone che parla di una guerra, o almeno così è chiaramente detto, ma se sia una guerra vera o una guerra simbolica o interiore non è dato di capire. Più che altro l’accento è su una situazione di grande disordine e confusione, disorientamento, con questi personaggi che la percorrono sbandati. La guerra a mio avviso è vista come simbolo di in un momento di grande trasformazione, in cui il mondo sta attraversando un punto di non ritorno, in cui appaiono all’orizzonte segnali nuovi e difficilmente interpretabili (le automobili, che sono la vera costante nella canzone); e se a volte il futuro sembra sorridere (“questa primavera che sta per arrivare”), altre volte c’è un qualcosa di inquietante (le “dieci macchine rosse”, con i “dieci signori al volante”, che “hanno tutti il cappello sugli occhi e tengono i baveri alzati, ma attenzione che non sono soldati!”). Comunque in sostanza è una canzone che ricorda davvero l’ultimo dopoguerra, o almeno come io me l’immagino, ma è attraversata da simboli dal senso ancora poco chiaro; di sicuro non tutto si può ricondurre ad una semplice descrizione del senso di sbandamento che si respirava allora, di fronte alla fine di un mondo e all’inizio di una nuova era annunciata da segni incomprensibili... Forse Fossati associa questa situazione-sensazione a qualche avvenimento della sua vita, e se è così solo lui potrebbe chiarirmelo... Se lo becco, giuro che glielo chiedo. Altra caratteristica della canzone è il grande senso di dinamismo (la copertina, remember?...): è piena di mezzi di trasporto o di cose che rimandano all’idea del viaggio (la stazione, le strade benché interrotte, il mare, i bombardieri e soprattutto le automobili) e di verbi di moto (passare, arrivare, andare via, tagliare l’aria, camminare, correre, venire). Inoltre c’è un accento sul contrasto fra cose lente e veloci (il passato e il futuro, direi): le “rondini lente che vedevamo venire dal mare” e le automobili, che “corrono toccando le strade ma potrebbero volare”; le macchine rosse che passano (sempre loro!) e le ragazze che “sfogliavano piano fotografie colorate”; da notare che se le automobili rappresentano il futuro le rondini sono associate a un verbo coniugato al passato (vedevamo) e le ragazze pure (sfogliavano), e anche le loro fotografie sanno di passato che più passato non si può. 
Da quel giorno del 1986 in cui mio fratello rincasò trionfante con “700 giorni” si aprì la caccia ai vecchi dischi fossatiani, allora assolutamente introvabili (furono ristampati in CD solo qualche anno dopo): uno alla volta, girando per mostre, negozi e negozietti, li trovammo tutti... Oggi sono di certo io, più di Francesco, il fanatico di Fossati, e ricordo dove trovai ognuno di quei dischi che tuttora conservo gelosissimamente... Ma per quel “700 giorni” che non comprai io, che fu il capostipite e che annunciò a me, miscredente, la grandezza del nostro, continuo a provare un affetto particolare.  


Discanto

Discanto e’ la vita in forma di canzone. La vita delle persone comuni, grande ed importante per ognuno di noi perche’ e’ la nostra, non perche’ facciamo necessariamente cose che saranno ricordate dai posteri.  
Discanto e’ una di quelle canzoni che rappresentano perfettamente Fossati cioe’ musica e testo sono sulla stessa lunghezza d’onda, l’una al servizio dell’altro e viceversa. E gli arrangiamenti, nel corso del tempo, hanno sempre esaltato questa armonia fra melodia e parola.
Una volta avevo letto qualcosa sul fatto che se un appassionato di musica ascolta la sua musica preferita, il suo cuore comincia a battere piu’ velocemente. Ci avete mai fatto caso? E’ vero! Be’, credo che Discanto faccia questo effetto non solo a me, ma anche a molte altre persone e forse l’emozione che da’ e’ uno dei motivi del suo successo “live”.



Panama


Torino, autunno 1981. Un (allora) quindicenne mediamente inquieto, amante a pari merito di De Gregori, Lucio Dalla e Loredana Bertè, è in pieno periodo “reggae” (estate a Londra e scoperta di “Babylon by bus”, proprio a ridosso della scomparsa del grande Bob)..
A quell’epoca Ivano Fossati per me significava soltanto “La mia banda...” e “Dedicato” per Loredana. Stop.
Gli anni Ottanta stavano per travolgermi in pieno con le loro velenose lusinghe ed io - né troppo omologato né abbastanza alternativo e rigoroso - oscillavo tra impegno ed evasione, tra Police e Duran Duran, tra cantautori e italian pop più corrivo..
Una sera annoiata, mentre cercavo di registrare alla radio una canzone qualsiasi, mi imbatto per caso nell’implacabile “levare” di Panama...”Di andare ai cocktails con la pistola non ne posso più....di trafficanti e rifugiati ne ho già piena la vita..” ..mi blocco di colpo, ascolto, la stazione radio non è definita....comincio a smanettare con calma e determinazione sul tuning.. (mica c’era l’isoradio!) e via, la canzone...vola ed io (che perdo la frequenza!) sto troppo giù..!!
Passano le ore e la mia diventa una ricerca spasmodica...ogni radio libera una tappa, ogni dedica, ogni annuncio di DJ la stazione di una via crucis...poi, finalmente - una decina di FM più in là - riparte di nuovo  “ ...che sa di nafta e lo nasconde con l’odore del tè e dell’erba da fumare...”
Solo alcune settimane più tardi e dopo un po’ di ascolti smozzicati e fortuiti, riesco ad ascoltarla per intero, a collegarla alla “mia banda suona il rock” e - infine - ad innamorarmene in modo adolescenziale, cioè assoluto e possessivo. Ingenuo e sprovveduto rispetto alla vita, allora non sapevo neanche cosa fosse una “piña colada”, né cosa volesse dire “mamaçita” (in realtà non sapevo neanche quale parole Ivano cantasse esattamente) ma la canzone irradiava intorno e dentro a me un fascino unico, musicale e letterario insieme. Dopo averla finalmente registrata sul mio stereo portatile Hitachi, gli ascolti si moltiplicano e con loro, l’amore e la suggestione..
Il testo mi cattura sempre di più. Cerco di definirlo, riesco poco a poco a comprenderlo, a immaginarmelo, a farlo sempre più mio ...”Panama” diventa LA MIA LINEA D’OMBRA, IL MIO CONRAD MUSICALE, il mio orizzonte emotivo, il mio altrove esotico - esistenziale, la sospensione delle mie scelte esistenziali in attesa di un imbarco o di una nuova missione... “Panama” secondo me riesce a cogliere quell’attimo esatto - intimo e terribile - in cui il cinismo (di andare ai cocktails e della francese che si sente sola LUI NON NE PUO’ PIU’) si stempera in curiosità, voglia di fuga, anche pericolosa verso l’ignoto (MA PANAMA DOV’E’?? SULL’ORIZZONTE OTTICO NON C’E’!) cioè VERSO LA PROPRIA ANIMA (l’ignoto e imprevedibile viaggio dentro di se’: il viaggio più esotico, il più lontano, il più NEVER MORE).
Ascoltare Panama è stato (ed è ancora) per me sentirmi per una manciata di minuti una sorta di Corto Maltese introspettivo. Di Panama amo anche il taglio cinematografico delle immagini evocate, tra folgorazioni, ellissi, campi lunghi (il mambo dell’ambasciata, il grande e tragico mare davanti, forse addirittura un gruppo di trafficanti e rifugiati...) e primi piani (il comandante, il cameriere che offre il te’, la francese, la dolce mamaçita, magari richiamata con un flash back onirico...). E amo l’uso particolare della prima persona: trovo che qui Fossati non sia stato del tutto autobiografico (è stato più intimo e “in confessione” in altri momenti) ma sia stato comunque capace di creare un leggendario ALTER EGO, pieno di suggestioni letterarie e cinematografiche e - soprattutto - facilmente personalizzabile, adattabile cioè alle diverse personalità degli ascoltatori più inquieti..
Poi ci sarebbe la versione live del 93, acustica e con le vocali trascinate, quella ponchiellosa con l’arpa di Zitello, ma questa è un’altra storia..


Le notti di maggio

Domenica ho offerto un aperitivo per il mio compleanno al Lelephant. "Nomen omen": tra i presenti c'erano alcuni elefanti morti. L'espressione l'ha usata M. (uno di loro) che dopo aver ricevuto l'invito via sms mi ha chiesto al telefono "Ma ci sarà il cimitero degli elefanti?" (Il senso è chiaro, no? non chiedetemi di esplicitarlo! E se proprio devo farlo prima allontanate i bambini dallo schermo!;-) In effetti ho sorriso sotto il pizzo. Tra gli invitati c'erano sei pachidermi e ne sono venuti tre (più uno che non si capisce nè che animale sia nè se sia vivo!)
Uno degli assenti era A. 
Ale ha gli occhi più belli che mi sia mai trovato accanto. Sì, più di quelli di G., che pure sono (perché mi verrebbe da dire erano?) un laghetto turchese e profondo, contornato da un bosco fitto di rughe che sorridono. Ma gli occhi di A. sono verdi con delle fiamme nocciola intorno alla pupille e delle ciglia talmente lunghe e curve che gli sbattono contro le lenti degli occhiali. Una roba da stare lì e accontentarsi di essere guardati. Nei giorni in cui lo facevo, l'anno scorso, Bungaro cantava al Festival di Sanremo un paio di versi che mi avevano dato su un piatto d'argento una bella citazione per un sms per lui: "Guardastelle guarda è un cielo di fiammelle è un cielo di fiammelle..."
Ho amato due persone, forse tre. Lui è nel gruppetto. L'ho amato anche perchè siamo uguali, nel nostro misto di purezza lirica alla ricerca di Quello Per Cui Vale La Pena Aspettare Una Vita e di fisicità animale da sfogare col primo che passa. Io però ho 11 anni in più e forse anche per questo sono riuscito e riesco a governare la seconda per permettere alla prima di indicarmi e di seguire la strada. Lui, invece, ancora oggi non riesce completamente a collegare entrambe alla sua sessualità e si vede ancora dalla "parte sbagliata" (...e mollali 'sti preti!). Qui era nato lo scontro in lui e fra noi.
Ho riattaccato da pochi minuti, dopo quasi mezz'ora di telefono. Mi ha chiamato dopo aver ricevuto una mia risposta un po' così. A. 'ste cose le fa.
Nelle notti di maggio non può bastare sapere che sopra il mio cimitero di elefanti ci sono anche cieli di fiammelle. Però quando mi capita di alzare gli occhi e di vederli è come se ci fosse qualcuno che sotto braccio mi porta a letto e mi rimbocca le coperte. Riabbasso lo sguardo, mi giro e non c'è nessuno. Solo la mia voglia di mare e di cioccolato e questa canzone che sono io e il mio modo di amare, oltre l'amore che (non) ricevo. Solo io, io e questa canzone che mi accompagna a letto in una notte di maggio, molto diversa da quella in cui tanti anni fa sono nato.



Mio fratello che guardi il mondo

Ho scoperto Ivano Fossati una calda sera di luglio. Scoprire ...in realtà riscoprire sarebbe più giusto, dato che alcune sue canzoni erano già passate dentro di me assai prima di quel tempo, senza che io le degnassi della giusta considerazione. ERA UNA SERA DI LUGLIO DEL 1999...una sera di sagre e folkfestval nella provincia, nell'entroterra, di cui si gode (purtroppo) solo in sparute occasioni... era una sera d'estate, estate fatta di servizio civile, di un amore lontano, tanto da sembrarti impossibile, era poche ore prima di un esame importante di cui non ti riesci a liberare... credo che non scorderò mai, il momento dell'attacco di mio fratello che guardi il mondo... è stato uno di quei momenti in cui qualcosa si accende dentro di te, un brivido che sale dietro la schiena, come quando baci per la prima volta una persona che sai che amerai o abbracci un amico fraterno... quella notte ivano fossati aveva preso un posto diverso , usando solo la dolcezza assoluta, il respiro profondo di poche note che hanno continuato a girare nella mia testa tutta quella notte, per giorni ,mesi a seguire, senza che mi interrogassi sul senso di quella canzone, senza sentire il bisogno di darle
un significato.... 
...oggi che so il messaggio di amore, solidarietà, fratellanza che ne fa parte, quell'attacco mi regala sempre lo stesso brivido, la stessa....
meravigliosa leggerezza....




Una notte in Italia


Niente tagli di luna stanotte, solo nuvole, grosse e veloci, che corrono forte e davvero, davvero enormi.
La fortuna di vivere adesso questo cielo sbandato, illuminato a giorno da ..lampi.. che abbagliano gli occhi della fortuna,  senno’ che ci sta a fare appesa al cielo.  Alla fortuna, nell’attimo del lampo, si vede la faccia, e...  uh... che lineamenti lunghi ha. La fortuna porta i semi del futuro, non c’e’ vento che possa spostarne cosi’ in la’  le preoccupazioni: il futuro che piovera’ a scravasso fra poco e’ un vino bevuto da soli... come ogni pioggia che si guarda dalla finestra.
Una notte in Italia, la vedo, la sento.
Di notte, affacciarsi alla luna ci sposta dove vorremmo essere, ci malincotrascina addosso chi speriamo stia condividendo lo sguardo su quel nostro punto del cielo ...che’ tanto e’ nero da non poterci richiedere precisione: basta che anche l’altra persona stia tenendo la testa un poco in su e il sogno e’ fatto. Va, fatto. Questa notte di tempesta fa vorticare la mia girandola nel vaso, stridente qui  sotto il mio incrocio di braccia gelide mentre inspiro, l’aria del beltemporale che arriva da est. “Una notte in italia” da far girare nel buio dietro di me perche’ mi arrivi alle spalle, capace di lenire il bisogno di un abbraccio grande in cui potersi riparare dalle lame fredde che ti fan male come uno ..qualunque.
Sul mio divano e’ un cuscino particolare, Quello. A ben guardare ne ho molti, altrettanto belli, morbidi e profumati, che mi toccano profondamente… ma non cosi’. Questa canzone arriva a comprendermi un poco piu’ in la’, stacca le altre di un’incollatura solo, ma fondamentale… l’inequivocabile “tum-tum-tum” percussivo che l’inizia, e’ l’aprirsi di occhi diversi, quelli che ti denudano, capaci di coinvolgerti fino in fondo, rapinatori di te fino ad esserti rapitori. Inutile poi dirsi come stai sul “parcheggio in cima al mondo”,  o quant’e’ incredibile quello stramaledetto “ma tutto questo e’ gia’ piu’ di tanto”… fino alla ferocia che ti ri(s)batte la tua incapacita’ d’assegnare (rassegnare) i biglietti ..senza ritorno…
Sono sensazioni che ti conoscono troppo per lasciarti nascondere, che luminano sullo specchio l’istante in cui ti guardi e ti vedi sul serio, poi piu’. Esattamente come ora, mentre il basso ruggito avvisa del prossimo precipitare, aprono la bocca i lampi che scagliano nel cielo i lineamenti della fortuna, questa stranafalce che come tutti.. cerca di copiare l’amore e non e’ che Deve.. lei VUOLE imparare. Chissa’ se ha fiato.


Labile  

La distruzione di un amore, del tuo amore. Non era un amore qualunque, sembrava quello giusto, quello che poteva durare, e invece... Pero’ e’ gia’ finito da un po’ di tempo, ormai e ti senti meglio. E ne sei quasi sorpreso! (“Scivolocomelenuvoledinot-te... e sto contento!”). O ti SEMBRA di sentirti meglio? Perche’, inevitabilmente,  il tuo cervello ricorda, ricorda, ricorda... e ti domandi com’e’ possibile che lei abbia dimenticato quegli istanti di magia in cui le vostre menti, le vostre anime, i vostri corpi erano in perfetta sintonia. Allora cominci a dubitare di tutto, di te, di lei, del mondo intero, perche’ non capisci come mai questo e’ successo proprio a  te e non ad altri...  Il vostro amore doveva essere eterno!  
Invece no e dovrai ripercorrere strade per le quali pensavi che non saresti piu’ passato, proprio come le note del pianoforte, che chiudono il cerchio, uguali a quelle iniziali. E quel tuo bel mondo idilliaco, fatto di comode certezze, e’ sparito. Per sempre. (“Ho sognato una vita di stagioni sicure...”). Pero’, forse sei pronto per ricominciare.


Amore degli occhi  

G. e A. dopo cena si sedevano sul divano (sarebbe meglio dire si siedono - sono io che me ne sono andata da quella casa -) e si mettevano a suonare la chitarra e a cantare Guccini, De Andrè, reggae, blues, ma soprattutto Fossati...  
Sono loro che mi hanno insegnato le d’ivan/divine parole, senza averle mai sentite alla radio ... e piano piano ho imparato a conoscerle, ascoltarle .. anche cantarle...
Questa canzone... l’ho ascoltata per la prima volta suonata da G., e mentre accordava mi guardava. sapevo che senza poterlo fare davvero voleva dirmi: questa è per te, per te e A.. ascoltala, e se hai voglia piangi E’ iniziata...
Ho capito al volo che mi stava facendo male poi Andrea ha cominciato a cantarla, sentivo la sua voce e le parole  catastrofiche perchè troppo vicine a me e a tutto quello che stava succedendo... e mi sono dovuta alzare, inventandomi qualcosa da fare... sono andata in camera da letto, porta aperta. mi sono sdraiata al buio e gli ho ascoltati... pochi giorni dopo me ne sono andata via, scappata, via via... via via... e dopo aver corso e cercato tanto sono tornata sui miei passi sai già bene fin d’ora, ma saprai meglio allora che non è mai finita rifuggita – poi – ritornata – poi – incazzata – poi – triste - a volte - piena di speranza – e - riscappata ancora – poi - ritornata E lo so tu vuoi me e hai paura di me e mi vorresti un altro uomo -cantava dalla radio la voce di un amico mio-  ...l’ultima volta che sono tornata...


La costruzione di un amore    

io non ho avuto, come molti di voi, la fortuna di incontrare persone, amici, amori che mi abbiano avvicinato alla musica e alle parole di ivano fossati.  
sì, ascoltai per la prima volta tre sue canzoni che non fossero «la mia banda suona il rock» nel 1984, durante il tour di «scacchi e tarocchi» di de gregori, le canzoni erano «ventilazione» e «la costruzione di un amore» (con certezza) e, forse, «panama».
mi colpì, mi restò dentro quel «...spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore, se te ne rimane...» e a 14 anni quando cominci a provare le tue prime gioie e le tue prime delusioni sentimentali, delle parole così dure, forti, ti creano delle tempeste... 
dico a me stesso «non posso ascoltare solo finardi o guccini o de gregori! ‘sto fossati mi piace...», proposizione rimasta accantona in un angolino, fino al 1994 (conosco e amo di già capossela)  
allora stavo da quasi un anno con l’unica ragazza con la quale abbia superato i dodici mesi (cinque anni), innamorato su tutti i fronti, perso, rimbambito, innamorato di tutto quel che mi dava...  
un amore nato fin troppo facilmente, un trovarsi casualmente una sera e rivedersi non troppo casualmente, la confessione reciproca che «casualmente» facevamo in modo di incontrarci in quell’estate, a frequentare gli stessi posti dell’altro...
trovo, non ricordo dove (forse nella macchina di una mia amica), una raccolta di ivano, «me la presti?» «ma certo!»
una sera non troppo felice, in macchina, metto la cassetta e le faccio ascoltare «la costruzione di un amore» e lei dopo metà canzone mi fa «toglila, è triste...»  
...perché il nostro amore per essere costruito non aveva avuto necessità di  spezzare vene, di mescolare sangue e sudore, non era un castello di sabbia, non c’era stato dolore in quella costruzione... il girasole era cresciuto grande bello e forte dall’oggi al domani... e i piani con i paradisi da consumare erano infiniti e più si saliva più ci si avvicinava al cielo per anni... così accantonai di nuovo la musica di ivano...  
poi quella meravigliosa storia d’amore finì, colpa mia, colpa sua... mah... fatto sta che a distanza di poco tempo ritrovo la musica di ivano, non se casualmente o volontariamente, vari episodi che mi avvicinano a lui, un filmato del tenco di non so quale anno, un concerto in televisione (non ricordo quale tour fosse), il disertore alla radio, un amico (finalmente) che scopro ha il volume due dal vivo e mi ci butto addosso...  
era il gennaio ’99 (e mi vergogno un po’ del mio essere così fresco) e da quel giorno la sua musica e le sue parole non sono più uscite dalla mia testa e dal mio stomaco, il resto è storia recente...  


Naviganti

Il giorno promette, molto spesso. La notte non mantiene, quasi sempre.
Sono a Firenze per lavoro, a cena con tutta la compagnia, gente simpatica, famosa, persino divertente.. sono sola! Butto giù un altro bicchiere di vino che mi aiuti a non vedere, guardare é già abbastanza.  
Sono ubriaca, forse sto barcollando, ma chi se ne frega, dal momento che non me ne rendo conto, posso ben convincermi di camminare dritta, del resto, non ho altri a cui dover dare delle spiegazioni. Ottimo vino però, almeno domani non avrò mal di testa. Guidare é un problema, non per il vino, a quello ci sono abituata, ma per il costante, delirante desiderio che un tir mi travolga, così non dovrei più preoccuparmi di dove ho messo le chiavi di casa... “sei sempre così disordinata!”  
Però quanto é bella Firenze! Se solo fossi di buon umore! Parcheggio, scendo dalla macchina, sto´ barcollando ancora, non riesco più a non accorgermene, “cerca di non cadere, sarebbe davvero umiliante!” Chiavi, toppa, infilare la chiave nella toppa...quale era la chiave del portone? … “Sei sempre così distratta!”. Entro nella mia bella stanzetta in affitto, mi avranno sentito rientrare anche quelli del palazzo vicino, peggio per loro! Bene! Ora sono sola davvero, e sono ubriaca, ma non mi basta ancora, perché il mio dannato cervello continua a dirmi che sono molto peggio di così, e allora bevo ancora, senza bicchiere, dalla bottiglia, perché non ho  piú le belle facce per bene che vivono nel mio mondo e lo infettano intorno, sono sola...sola, sola! “Te lo meriti, sei sempre così...così” “...così cosa? Come cazzo sono io e perché? E perché non piango? Ho un disperato bisogno di piangere...perché non ci riesco?” Sul comodino chi abbiamo? H. Hesse: “Il coraggio di ogni giorno” … no per carità, non voglio rimproveri stanotte!  Musica. Chi c´è nel lettore? I. Fossati “Buontempo”...e sia.  
Terra dove andare…dove scappare, caso mai, avessi almeno le scarpe adatte a camminare! ...chi si guarda nel cuore...? dici bene tu, ma chi ha più il coraggio di farlo?! La luna non c´é, ne intera ne tagliata. Buontempo…per chi, certo non per me, che peggio di così non potrebbe essere.  Mio fratello guarda il mondo, che non lo guarda e non vede me! ...Il dolore passerà...non prima di essermi passato sopra, l´amore vola, il mio ha perso le ali...”´fanculo Ivano, questa volta non mi aiuti neanche tu! Ecco bravo suona non parlare, che è meglio così.. questa sonatina è breve troppo breve, peccato, mi piaceva. Hai qualcosa di intelligente da dire ora? Bada bene, sono di pessimo umore e non riesco a piangerne.”  
“… Siamo stati naviganti, …” ...c´é sempre un tempo giusto per ogni cosa, per vedere bene e per ascoltare...e quella sera era il mio tempo. Per ore ho ascoltato quelle parole che conoscevo distrattamente, per ore ho parlato con quel mio caro, carissimo vecchio amico, lontano da quella stanza, ma non da me, e a poco a poco le scarpe non mi face vano più tanto male, timidamente ho ricominciato a guardare nel cuore e ci ho visto sorgere una pallidissima luna, certo il tempo non era buono, ed il dolore non era ancora passato, ma passerà, dovrà passare, lo faremo passare! Si tornerà a volare…finalmente piangevo! “Grazie al  cielo, grazie a te, perché se in questa notte senza luna non avessi pianto, domani, all’alba avrei odiato il sole e ancor di più me stessa per non aver avuto pietà di me. Grazie perché sei stato il libro che lascerò cadere e che mi ha aiutato a capire. Grazie perché domani rammenderò le vele e riproverò a navigare nel mio mare, a volte, così solitario, ma tanto bello e se c´è un po’ di vento buono, riuscirò ad allontanarmi da questa notte nera nera!”  
Il perché stessi tanto male riguarda solo me, la mia vita e non sarebbe altrettanto importante per voi, ne potrebbe in alcun modo aggiungere valore (se poi ne ha) a tutto quello che, fin qui, ho scritto, perciò non vogliatemene male se non l´ho neanche accennato.  


Italiani d’Argentina

Fossati è stato il terzo autore che ho conosciuto, più o meno a 14 anni (fra qualche giorno ne avrò 25), qundo mi capitò in casa una cassetta di “La pianta del te”. Questo è il disco che mi ha aperto gli occhi alla sua musica e le sue parole, ma solo dopo poco tempo Discanto mi ha letteralmente travolto e segnato.  
Tra tutte le canzoni scelgo “Italiani d’argentina” perchè credo che sia la prima canzone di Ivano che mi abbia fatto commuovere. Più in la ce ne sono state altre anche più intense (Lindbergh, Sigonnella, La costruzione di un amore, la scala dei santi...) ma questa è stata la prima.  
Mi ha colpito la drammaticità della distanza (ricorrente in molte sue canzoni, come anche quella del “distacco”) che ha reso perfettamente, come se fosse un film senza le immagini, che riesce a coinvolgere ed emozionare anche chi (a 15 anni) degli emigranti non sa un gran che, richiamando immagini e momenti che forse si può provare anche se non si è emigrati mai, senza aver “navigato mai”.  
E un po’ a malincuore mi accorgo che spesso vivo come una persona che per riuscire a stare a galla è costretto ad andare (e restare) lontano dalle proprie passioni e ambizioni, ma che mantiene costantemente lo sguardo nella loro direzione, sperando di riuscire a vederle lì ferme, da lontano.  Sperando un giorno di riuscire a invertire il corso delle cose. E ritornare.  


Ventilazione  

Ho conosciuto Fossati grazie ad A. e il mio approccio e’ stato molto particolare. E’ molto difficile che io ascolti musica senza fare altro nel frattempo, leggo, faccio la doccia , cucino, insomma la musica e’ un sottofondo piu’ che un impegno totale. A. mi ha dato il CD di “Carte da decifrare” e io l’ho trattato come tutti gli altri, ossia l’ho fatto girare mentre ero distratta. In questi casi e’ difficile che io resti colpita dai testi, mi arrivano i ritmi del cantato e piccole frasi piu’ che il senso totale. Ma il tutto mi convinceva, ho riascoltato piu’ attentamente ed ero sempre piu’ convinta. Il problema e’ che le parole suonavano troppo bene, il ritmo mi prendeva e cominciavo a lasciar andare le emozioni, tanto da non ascoltare piu’ i testi, ho dovuto leggerli a lettore spento per seguirli e questo problema con Fossati (e pochi altri) mi e’ rimasto. Gli ho chiesto di ascoltare altro, lui mi ha graziato sui primi album (li ho ascoltati molto tempo dopo e non posso che ringraziarlo per la scelta ;-) e mi ha dato Ventilazione, l’intero album intendo. 
Amore a primo ascolto, la canzone che da’ il titolo all’album mi ha entusiasmata. E’ una canzone leggera (e’ tutta musica leggera), con un testo a tratti banale nella sua semplicita’, ma mi colpisce ogni volta, mi fa venire voglia di alzarmi ancor piu’ di “alzati che si sta alzando”. Come potrete immaginare non e’ il senso complessivo del testo ad avermi colpita, ma alcune parti, alcune parole e, moltissimo, la musica. Mi sembra il lato ottimista di “e di nuovo cambio casa”, un modo di guardare ai cambiamenti, al futuro, con la voglia di viverlo, con la consapevolezza di poterlo maneggiare e modificare. Questa musica allegra e in crescendo che accompagna i futuri (daremo, staremo, ricorderemo, ricorderemo) della prima strofa fa “pensare positivo”, la descrizione delle possibili difficolta’ seguita dal ribadire dei futuri e’ esaltante.  
E poi alcune perle come “nessuno vorra’ farsi apparire in sogno un avvocato conservatore” oppure “la polizia conserva foto di tutti e Dio lo sa cosa le tiene a fare” alla faccia di chi non considera Fossati un autore schierato. E ancora, in fondo, il “daremo aria” che diventa “daremo fuoco” che dice tutto sulla voglia di ribellione, a perpetuare un gioco che io ho imparato con De Andre’, il ritornello che cambia solo l’ultima volta per imprimersi nella testa e sottolineare una svolta. Si, perche’ nonostante l’ossigeno che ora ci danno (quell’ossigeno che serve a vivere, a respirare ma che e’ anche un ottimo anestetico) noi, che non usiamo abiti scuri, daremo fuoco a queste stanze e lo faremo presto, addirittura prima di Natale, perche’ vogliamo tornare a respirare alla vecchia maniera.  


L’uomo coi capelli da ragazzo

Del Fossati scelgo un pezzo il cui significato ho modificato, nel tempo, probabilmente troppo. Ma riprende una situazione  vissuta e sudata (probabilmente troppo…) e dopo tutto - anche - a questo servono le canzoni: le impugnamo per spiegare, per buttar fuori… senza esporci.  
Capita che ci si restringa la vita ad un cortile; quando poi vi si scontrano correnti - quelle del bel mare, la vita appunto - la posizione che assumiamo e’ di starcene in mezzo, al cortile, proprio al centro dei vortici e delle calme di vento. Nella luce radente di un pomeriggio strano, il caso ci fa capitare da una parte. I capelli non lo tradiscono, eppure l’uomo che  osserviamo di qua della staccionata - non ci azzardiamo ad entrare - avra’ una quarantina d’anni. Dovendogli stare distanti, riusciamo ad intravedere di piu’: aspettando che arrivi la sua domenica, si parla e si ascolta, convinto d’essersi medico capace di capire quando vale servire in tavola e quando invece conviene star a guardare le semine che fanno crescere intorno ai muri. Al centro dei suoi pensieri, tra quei ricordi che non hanno sesso, si lascia soffiare dai vapori lontani, rassegnato com’e’ nel credersi ormai escluso dalla possibilita’ di tracciare una rotta, di dare e darsi una via, come tutti. Nell’attesa della sua domenica, tiene un ritratto, li’ nella camera dove non fa entrare nessuno, che si e’ fatto da se’. Sale il sospetto che… a poterne toccare la tela ruvida, scopriremmo che una (tenera?) speranza se l’e’ firmato Dorian G. Ma sono solo ipotesi, non si puo’ sapere: l’uomo coi capelli da ragazzo tiene l’anima per se’, crogiolo di dolori cui seguono piu’ acute fantasie. Sul limite di questo cortile, inermi ci stritola - davvero - il cuore, vederlo cosi’ scollato dal mondo e rimpallato tra i vari se’ in cui pare anche ..consolarsi, e cercare di ripararsi dal vento del tempo che teme porti via.  
Vorremmo poterne superare ed aprire lo steccato... Chi venisse a prenderlo vedrebbe il bel mare, ne siamo abbastanza sicuri. Sempre che cio’ che e’ triste non vinca… l’uomo che s’e’ seduto a  mettere i numeri in colonna.  


Naviganti

Ho iniziato ad ascoltare seriamente Fossati quando usci’ Discanto... lo conoscevo gia’ prima e avevo qualcosa di suo registrato sulle cassette regalate dagli amici, ma e’ stato Discanto a farmi entrare veramente in sintonia con il nostro e, da allora, a non farmelo mai piu’ abbandonare... Nel fare mia ognuna delle sue canzoni faccio mia una storia, una storia in cui si parla di noi, e in quel noi appunto ci sono anche io, e mi ci trovo benissimo...
Naviganti l’ho sentito per la prima volta dentro il primo volume dal vivo... Buontempo, me lo registro’ su cassetta una mia amica... in uno dei periodi piu’ importanti e fertili della mia vita, quando perdevo certezze e stabilivo dubbi...
Amo Naviganti perche’ parla dell’amicizia e della fatica che si fa a crescere e a capire un po’ di piu’ del mondo senza tradire se stessi... non siamo noi a scegliere la vita ma e’ la vita che sceglie noi, in questa verita’ (che non e’ rifiuto della propria responsabilita’ badate bene) c’e’ tutta la casualita’ del ritrovarsi qui ed ora, tutta la fragilita’ delle nostre vite che faticosamente costruiamo pezzetto per pezzetto, tutto l’amore che riceviamo e che doniamo, tutto il senso appunto del nostro navigare...
Amo Naviganti perche’ racconta in poche immagini quello che vuol dire vivere...
Amo Naviganti perche’ mi ricorda di come certi libri siano importanti...
Amo Naviganti perche’ anche a me basta un filo di vento per continuare a navigare...


Confessioni di Alonso Chisciano

Adottare una canzone di Fossati? una? mi pare difficile;.sono almeno 10 le imprescindibili, quelle che, parafrasando l’amato Berthold Brecht, durano tutta la vita. poi mi godo le prime recensioni, e ancora le successive intense, appassionate, ma soprattutto vissute. così mi decido: adotterò la canzone che più mi rappresenta, quella che pare fotografare il mio cammino, la mia anima, il mio mondo; è un po’ come per il mio soprannome qui in ML, gourmet cinico e disincantato, meridionale cosmopolita e tradizionalista, implacabile lettore e altrettanto implacabile incendiario di tonnellate di libri, prigioniero politico marxista e killer della C.I.A., che rappresenta a tutt’oggi il mio ideal-tipo di riferimento e la mia religione privata. parimenti il cavaliere Alonso Chisciano, il suo confessare debolezze e orgogli, il suo amare fuori dagli schemi, la passione quasi misantropizzante per i luoghi della sua memoria, l’inspiegabile custodia di (in)utili feticci del passato, l’ironico e disilluso rapporto con follia e morte, il pudico ma implacabile rifiuto per ciò che è normale, mediocre, la fiera accettazione della propria debolezza e del proprio destino, mette in scena la mia vita;  allegoricamente, è ovvio che la mia condizione di 30enne panzuto e occhialuto non si confà (non istantaneamente) all’immagine di un paladino medievale o giù di lì.  


I treni a vapore

Stasera, riascoltando quasi tutta la produzione musicale di Fossati (quella in mio possesso) ho ricostruito le tappe della mia passione per questo autore. Non è di quelli che ho trovato in casa, ma in casa un minimo di curiosità nei suoi confronti c’era. In tempi non sospetti acquistai a prezzo stracciatissimo, con una di quelle ditte che ti mandano i dischi a casa Lindbergh, assieme ad Us di Gabriel ed Acustica di Finardi. Gridai al capolavoro, penso che sia il disco di Fossati che ho consumato di più, in un’età forse troppo giovane per amarlo a fondo. Successe qualche anno più tardi, infatti, che m’invaghii di un fanciullo romano incallito ascoltatore (ma pessimo suonatore, solo a ottobre scorso, sentendole suonare da P. ho capito che le canzoni di Ivano con la chitarra si potevano suonare bene) e così, per non essere da meno, mi “documentai”. Il fanciullo lo persi di vista, ma la passione mi rimase, anzi, dopo il suo allontanamento crebbe anche di più. Poi venne Macramé ed il mio primo concerto, a Ravenna, alla Festa dell’Unità, 12 settembre 1996, un freddo boia, all’aperto. Mi ricordo il sorriso di Mario Arcari e la sciarpona di Beppe Quirici, mi ricordo la scenografia con le ombre cinesi, con gli angeli che volavano durante l’esecuzione de “L’angelo e la pazienza”e l’aereo che calava giù per Lindbergh. Poi La disciplina, ed il relativo concerto, lo scorso anno, vissuto male perché troppo vicino ad un litigio “per tanto amore”, le lacrime nascoste su “La volpe”, perché l’amore aveva smarrito la strada.
Ma se penso ad una canzone di Fossati che sento mia penso a “I treni a vapore”. Di stazione in stazione e di porta in porta, di pioggia in pioggia, di dolore in dolore, il dolore passerà ....
Ascolti ripetuti meccanicamente di canzoni, per non pensare, stesa su di un letto,
poi la mente si ferma e rimane colpita da una frase e la ripete, meccanicamente, fino all’ossessione, fino al convincimento “è così, dev’essere così, il dolore passerà ...”
La ragazza un giorno riceve in dono da una persona che poteva capirla, ma la conosceva poco, uno strano disegno, ne fa una copia e lo incolla su un grande cartellone colorato, che arricchisce con alcune frasi, al centro questa. Decide di portarlo in un posto lontano da dove abitava e di regalarlo a due donne che “le avevano ridato la vita”.
La ragazza pensa e spera ( e crede fortemente, ostinatamente) che un giorno tornerà “di stazione in stazione “ in quel luogo, mano nella mano di chi l’amerà ed aspettando l’arrivo di una nuova vita lo leggeranno, si guarderanno e sorrideranno.


La volpe

L’ombra che sembra conosciuta ma nasconde l’imponderabile mi guarda da lì, da vicino ma non troppo, da distante ma ben visibile. Non mi fa paura, mi sono lasciato incuriosire ed appassionare, talvolta illudere, ..... a volte ho imparato a dimenticare, ho conosciuto la disillusione... Ma quell’ombra è importante, luogo di sogno e di fantasia, di slanci del cuore e di corse affannose, di luce che allude e di nebbie fitte e malinconiche. ... è lo spazio fra desiderio e realtà, è la speranza di trovare una presenza viva, accendere un contatto,.. è la consapevolezza delle fugacità e delle precarietà, è ogni rapporto appeso al filo sottile del cambio di stagione, al filo esposto alla lama dell’inverno.. è la nostalgia di una nenia che ripete sempre per due volte ogni frase, ..e poi la forza di una voce fiera di donna ad intrecciare la trama del canto.  
L’ombra è un ricordo lontano ma vivo, lo chiamerò C., è la sua voglia di capire il mondo, e la sua voce insistente e le sue mani incerte, e il suo passo un po’ ondulante e il suo profumo dolce... e la sua ansia di non fermarsi. L’ho perduta ancor prima di abbracciarla fino in fondo, l’ho perduta mentre le accarezzavo i capelli. E’ andata via, senza dire una parola, senza un frusciare di foglie, in una notte di malaluna. Di me le è rimasto forse solo un biglietto, che diceva così:  
Che sarà quell’ombra in fondo al viale di casa mia?
Tra lo stupore ed il timore, scorgo qualcosa (qualcuno?) che si profila, in lontananza. “Sarà il mio amore che ha trovato la strada”, ma è solo un tentativo di trovare una risposta sensata; è una risposta che svela certamente una segreta speranza, ma plausibile. Invece no. Il mistero racchiuso dentro quell’ombra rimane; oserei dire che deve rimanere, non può che rimanere. Quell’ombra è l’ultimo luogo rimasto per far vivere la fantasia, per far correre veloce il desiderio, sulle orme della volpe “quando viene l’inverno”.  


L’angelo e la pazienza

Ricordo del giorno in cui acquistai MACRAME’. Un mio amico musicista mi disse “Va comprato oggi, il giorno stesso dell’uscita, perché questo disco sarà una pietra miliare e noi saremo come quelli che il primo giugno del 1967 comprarono il “Sgt Pepper...” dei Beatles”. Aveva avuto molto naso, come al solito.  
Mi ci è voluto molto tempo prima di entrare nello spirito di MACRAME’, direi un paio d’anni. Era il mio primo disco di Fossati, del quale conoscevo solo (pensa un po’) la canzone “La mia banda suona il rock”. Alla fine sono stato conquistato. D’estate mi portavo la cassetta dappertutto, quando ancora andavo in vacanza con i miei genitori. Avevo 16, 17 anni. Mi ricordo quelle canzoni in giro per la Sicilia (“...io t’ho guardato abbatterti e salire / abbatterti e salire / e accenderti finalmente / come le luci di un ponte / in mezzo all’estate / in mezzo all’estate..”), o per la Croazia interna (“..Ci sono luoghi dove il bisogno di violenza / è molto più forte della volontà..”), o anche di notte, prima di andare a letto.
Mi affascinavano, musicalmente, alcune cose: il pianoforte all’inizio di “La vita segreta” e quello di “Stella benigna”, l’organetto di Tesi, lo stick di Levin nell’”Abito della sposa”, la presenza di Arcari, molto meno determinante rispetto agli altri dischi ma non per questo meno importante, le ritmiche di Gurtu.
E poi i suoi testi, senza esagerare, mi hanno cambiato la vita. Mi hanno aperto un mondo fatto di parole, di suoni/parole, di immagini bellissime; il discorso di Fossati sul Tempo e sull’Uomo mi hanno spinto a scrivere poesie e altri testi, mi hanno costretto a pormi delle domande, a mettere in discussione me stesso.
Forse la canzone che più mi smuove le acque è questa: L’ANGELO E LA PAZIENZA.
A dire il vero non l’ho mai ben capita. Ma certe immagini sono talmente potenti che il voler comprendere tutto a pieno mi pare un esercizio inutile e poco importante. Una per tutte, questa: “...C’è un trionfo di stendardi / dove termina il dolore / e dopo centomila ore / non c’è un minuto di più...”. Una canzone d’amore! Io mi soffermo a pensare, e mi rendo conto che nessuno ha mai scritto canzoni d’amore così profonde, inusuali, sensuali ma anche così belle. Fossati ci ha insegnato, forse più di altri cantautori, che si può scrivere una canzone d’amore senza usare il trinomio cuore/amore/cuore, senza gli orpelli e le banalità e gli urli e le sofferenze sterili di certi topolini da Sanremo... Sognando di angeli, di Buenos Aires, di strade lastricate... In questo disco Fossati unisce e intreccia (lo dice il titolo), ed in questa canzone “...L’amore va rammendato...”: strepitoso, tutto torna. Un’ultima cosa: nelle canzoni d’amore di solito si scrive “IO TI AMO”... Qui Fossati dice “IO TI VOGLIO AMARE”... La differenza è sottile, ma i mondi sono diversi..


Discanto

Questa non è un’adozione di discanto da parte mia; discanto ha adottato me, che peraltro l’avevo generata nella mia mente proprio per questo scopo, in una brumosa notte romana del febbraio 1990.
Il fascino di questa canzone è che colpisce il cervello come un asteroide e arriva allo stomaco come un colpo di maglio senza passare dal cuore; il cuore è stretto tra queste due forze pulsanti e vivisezionato con precisione chirurgica e inesorabile; il ritmo è lo stesso delle viscere, lo scintillio delle liriche è elettrico, elettroni che fremono e friggono nel groviglio dei neuroni. tutto in discanto suona diversamente da come ci si aspetterebbe in una canzone normale; non è canto, è discanto, come nell’antica tecnica polifonica medievale basata sull’antinomia tra voce e musica, che dà il titolo al pezzo e all’intero album; dalla voce, che non è melodica ma roca e ripiegata su se stessa all’inizio, per poi alzarsi non nel do di petto ma in un rigurgito di rabbia, in un’invettiva urlata, per poi adagiarsi nella saggia rassegnazione finale; al ritmo incessante e tronco, controtempo, della batteria; alla profondità prima lieve, poi martellata e imbizzarrita del pianoforte; ai rumori, più che ai suoni, degli altri strumenti, come di marchingegni che scricchiolano, valvole che scoppiano facendo scintille. Discanto è un monumento postmoderno alla vita, di quelli fatti di ferro arrugginito, di forme scabre e irregolari, di pietra povera e grezza, non pregiata e levigata come quella delle sculture classiche. È un piccolo trattato, tanto sentito e sofferto quanto asciutto, sulla condizione umana, rappresentata dall’inizio alla fine, ma non come una linea retta, bensì come il segnale irregolare e disturbato di una vecchia radio; si comincia con acqua e respiro, il liquido amniotico dell’utero materno che avvolge e protegge e l’aria che invade e gonfia i polmoni nel primo respiro, violento e doloroso, del bambino, e si finisce in un dolore a caso, una fine qualunque, pietrificati nell’ultimo sorriso grottesco, nell’ultimo abbaio che cristallizza in un fotogramma eterno quel microcosmo, così cosmo e così micro, che è la vita; piccoli e stupiti viaggiatori soli. Tra questi alfa e omega c’è un ribollire di immagini distoniche, tutto quello che si vede è messo di traverso con il corso ideale della vita, ma non è la vita ad andare di traverso, è la condizione dell’uomo che con essa è distonica, rimandando alla suggestione democritea degli atomi in caduta libera prima dell’inizio del cosmo: un’eterna caduta verticale, fin quando un atomo non deviò colpendone un altro ed innescando una reazione a catena che fece aggregare in modo casuale tutto il creato: la vita è così, imperfezione, casualità e libertà. E così sono passi sparsi, i primi, incerto movimento; pronte guittezze, intelligenza e intermittenza; si “inciampa piuttosto che cadere”, si danza ma si sbaglia il passo, si viaggia ma la fortuna è solo quella degli altri, per giunta raccontata; si hanno i diavoli al culo ma il tempo c’inchioda; si desiderano fuochi ma si accarezzano fianchi smorti; quest’ultima è un’immagine che atterrisce, specie per un ventenne quale io ero quando uscì la canzone, al pensiero che la vita di chi mi sta intorno, dei miei genitori, e magari un giorno anche la mia, possa essere davvero fatta di fianchi smorti. In questo continuo contrappunto di immagini, la frase che più mi piace e che considero il centro iniziatico della canzone è “si vive di pane, di speranza di bere un vino buono per l’estate”: la concretezza e il sogno, il corpo e lo spirito finalmente ricomposti ad unità; un piccolo scrigno di saggezza per guidarci in un cammino accidentato e rischiararci l’anima con discorsi leggeri, dopo la fatica del far crescere la vite, raffigurata in modo quasi speculare dal suo avvinghiarsi ed attorcigliarsi intorno ad un banalissimo palo conficcato nel terreno. Di questo si vive, e di tant’altro ancora; finite le parole, continua la musica, beffarda eco di quella che è stata la vita di un uomo e che risuona nel mondo e nella vita di altri uomini come un severo monito che ricorda il monastico memento mori; e tutto si perpetua, allo stesso tempo uguale e disuguale, lento e veloce, tonico e distonico, canto e discanto; in perenne caduta
libera, come gli atomi di democrito. Finché un giorno un atomo…  


Una notte in Italia

Sono passati più di 12 anni da quando ho ‘ascoltato’ per la prima volta la musica di Ivano Fossati. Era il periodo in cui ci si trovava sotto il campanile della chiesa del paese, per decidere dove passare la serata, con circa 10, 20 o 30 persone, a secondo di chi passava di la’.. Tra queste persone ce n’era una per me particolare.. era un ragazzo un po’ riservato, taciturno, ma molto interessante.. Facevo di tutto per salire sulla sua macchina. Le note che provenivano dalla sua autoradio erano quasi sempre canzoni di Fossati. Aveva l’intera discografia. Gli altri si lamentavano perchè “..non sono certo canzoni da ascoltare il sabato sera..”, ma lui non se ne curava.. Così ho cominciato ad apprezzare quella musica.  
Siamo poi andati in ferie assieme ( nel frattempo eravamo diventati ‘morosi’). L’album del momento era “700 giorni”.  
L’abbiamo ascoltato un’infinità di volte.. Passavamo ore a cercare di capire il significato dei testi delle canzoni e in particolare ricordo la sua spiegazione di “Una notte in Italia”. La canzone inizia in questo modo [...] la fortuna di vivere adesso /  questo tempo sbandato /  questa notte che corre / E IL FUTURO CHE ARRIVA / CHISSA’ SE HA FIATO.  
E si conclude così: [...] che è poi la fortuna di chi vive adesso / questo tempo sbandato / questa notte che corre / E IL FUTURO CHE VIENE / A DARCI FIATO. “Alla fine della canzone viene proprio voglia di respirare profondamente e di sorridere, perchè se all’inizio c’è solo la speranza di un futuro migliore, dopo ne abbiamo la certezza.. e una dose di ottimismo ci può solo far star meglio”. Ero ammirata dalle sue spiegazioni e dalla profondità dei suoi pensieri...  
A pensarci ora, non ho mai saputo come lui aveva cominciato ad ascoltare la musica di Fossati.. stasera quando torno a casa glielo chiedo, dato che l’ho sposato!!! La nostra storia insieme è passata attraverso tutte le canzoni di Fossati, da “La costruzione di una amore” della quale mi diceva che il nostro stare insieme non gli “spezzava le vene delle mani”,  a “La volpe”  ascoltato come inno propiziatorio prima delle mie gare a pallavolo, e ancora da “Discanto” del quale volevo fare ( e spero che in un futuro riusciro’ a fare ) un quadro/manifesto, a  “Confessioni di Alonso Chisciano” dove la frase “Ah, che compagnie infelici / cavalieri di specchi, / minestre di radici” è diventata tra i miei amici un ‘tormentone’, e molte altre, ma per finire vorrei menzionare “Questi posti davanti al mare” perchè tutte le volte che andiamo in Liguria, ammiriamo la famosa curva dietro la quale improvvisamente vediamo il mare.  


Vola  

Nei secoli dei secoli, in molti si sono cimentati nella grande impresa del “parlar d’amore”. Forse non tutti hanno sortito l’effetto sperato, ma ognuno l’ha fatto pagando il duro pegno che questo splendido sentimento ogni volta richiede.  
Ognuno fa tesoro della propria esperienza e l’ultima cosa che voglio fare ora e dipingermi come un calimero solitario pronto ad autocommiserarsi, ma.. Diceva qualcuno: “Il piacere che l’amore offre non dura che un momento, la sofferenza che ne può conseguire dura tutta la vita”.  
Tu non mi ami più. A me non resta che affliggermi e rifugiarmi nel sogno. Ecco perchè l’Amore vola, vola e noi poveri pazzi non possiamo che crogiolarci in congetture e ipotesi persi nell’universo della nostra pazzia. Folle infatti è colui che ama, poiche’ questo sentimento non accetta regole e non accetta restrizioni razionali, vuole tutto e non accetta mezze verità. Ora mi trovo solo davanti ad una realtà apparentemente lontana ma tanto vicina da coinvolgermi in pieno. La solitudine che provo non potrà mai essere colmata se non da altro amore più vivo e più forte. Ognuno ha il diritto di provare ad escludersi da tale destino, ma raramente questo serve a qualcosa.. Le amicizie possono servire ma spesso la festa dell’altro e la gioia altrui non riesce a farsi sentire dal mio cuore affranto. Gli altri sono lontani, non vogliono capirmi e comunque pur volendomi bene non potranno mai comprendere la mia disperazione.. Ho provato a nascondere questa verità anche a me stesso, nascondendo le carte davanti i miei stessi occhi e ho finto di amare con la stessa forza del tempo in cui tu eri vicino a me, ma la realtà ha preso il sopravvento e soffro più di prima. Ogni pensiero razionale sprofonda nei miei sentimenti e l’unica idea che mi porta avanti e mi spinge ancora a vivere è la speranza che tu ritorni.  Questo pensiero continuo e assillante mi accompagna il giorno e la notte consumando la mia vita come un tarlo.. Solo dentro di me troverò la forza di uscire da questa storia e il coraggio di andare avanti e continuare ad amare.  


Lusitania

È terra compagni, è terra  
Com’e’ strano (e bello) trovarsi in un paese che ha avuto negli anni settanta quasi due anni di anarchia(!!!). Come se qui le utopie si potessero toccare con mano!  
terra secca da guardare / buona per camminarci sui ginocchi / e per pregare.  
Quante chiese! Ed ognuna racchiude vari pezzi di storia del paese; qui specialmente puoi vedere stili, epoche, lavoro di uomini di civilta’ diverse. Tutto insieme.
E vedo gente e c’è lavoro / e non sono giardini, è terra / occhi che hanno visto terra / e terra d’oro
Lavori “in corso” dovremmo dire. Ovunque. Ristrutturazioni lente, come lenta e’ la giornata dei portoghesi. Quando arrivi ti sembra di vivere in una dimensione parallela, noi cosi’ rapidi, leggeri, nervosi... loro cosi’ lenti, forti, coscienti. Fu terra d’oro, si intuisce, si intravede. Oggi non piu’. Ma forse e’ meglio cosi’.  
e sono nasi, bocche, piedi trascinati / fra tovaglie di pizzo / capelli sempre spettinati.  
Nei vicoli dei quartieri piu’ poveri - i piu’ belli e piu’ veri - gli uomini, queste facce dai lineamenti forti, camminano silenziosi; e noi dopo un po’ ci muoviamo come loro, un po’ per pudore, forse. Le mamme stendono grandi lenzuola bianche sulla strada, alcune improvvisano un barbeque di pesce fresco, baccalau probabilmente.
Sembrano distratte eppure non perdono di vista i bimbi che giocano per strada con un bastone e un vecchio pallone un po’ scucito. Bimbi con occhi da grandi, gia’ abituati a quel vento che non manca mai, che ti accompagna ovunque, anche nei vicoli piu’ nascosti delle citta’.  
Sono salite, ponti e discese / e barche e ponti ancora / è terra dimenticata / da pagine intere / che ancora adesso non ci guarda / non ci parla e non ci fa sapere
Salite soprattutto, non ero abituato! E all’improvviso compare lui, Pessoa. Sembra guardarti ancora da dietro gli occhiali, attraverso il fumo delle sue sigarette. Concentrato nei suoi pensieri. Forse un po’ troppo distratto...  
Bella Signora Nostra che ci appari e scompari / vedi come poco sappiamo di te
La nostra bella signora ha un nome e un cognome. Per gli amici e’ semplicemente MP. Una folgorazione! Fanno parte di lei lo sguardo forte e il senso del tempo, del destino, della vita dei portoghesi. E non ha perso lo spirito e la magia delle sue radici campane. Esiste un connubio piu’ affascinante?!  
Riuscire a dirsi molto con poche parole. E ridere. E capirsi. E sentire che la distanza non e’ affatto atlantica. Cosi’ lontani, cosi’ vicini. ...ora qualcosa sappiamo di te!  
Loro hanno facce di muta cera / così com’è normale immaginare / chi vede sempre da sempre ultimo la sera / e se ha già visto non è neanche stanco / di guardare
”Facce di muta cera”: sono esattamente cosi’ gli abitanti di quelle terre. Sembrano non accorgersi di cio’ che accade ma se stai attento li scopri a sbirciare quei tramonti che quaggiu’ da noi nessuno vede piu’.
E vedo gente e c’è lavoro / e c’è sempre vento in strada ad aspettare / noi che siamo qui a vedere e a camminare / e nel nostro viaggiare / e volere ricordare e toccare e camminare / in questa smania / dimentichiamo posizioni, rotte e nomi / e siamo piccoli, stupiti viaggiatori soli / e tutto questo vento intorno invece.. È Lusitania
Il resto e’ ancora dentro di me, non so raccontarlo. Se mi guardaste bene dritto negli occhi forse potreste vederne uno scorcio. A chi c’era anche senza aver navigato fin laggiu’. 


Il talento delle donne (Time and Silence)  

Proverò a dirvi perché ho scelto Il talento delle donne. Come per altri, la canzone che ho scelto è legata al momento in cui ho iniziato ad amare la musica di Fossati. La canzone uscì nel 1998 come unico inedito della raccolta Canzoni a raccolta. Prima di allora mi ero già avvicinata alla musica di Ivano: nel 1996, senza conoscere nulla di lui, avevo comprato Macramé perché avevo sentito Il canto dei mestieri e ne ero stata molto colpita. Non si può dire che Macramé non mi piacque: alcune canzoni (Il canto dei mestieri appunto, L’angelo e la pazienza, Labile) mi presero fin da subito, ma complessivamente posso dire di averci messo degli anni a capirlo e ad innamorarmene. E mentre Macramè se ne stava lì a decantare lentamente, mi imbattei nella raccolta, un acquisto di mio fratello, che divenne mio in pochissimo tempo e che fu fondamentale per far scattare in me la scintilla della passione. Dopo aver assimilato ben bene tutti i successi, infatti, incominciai ad aspettare l’uscita di un nuovo lavoro, e poi a risalire nel tempo attraverso gli altri album (scoprendo, con immensa meraviglia, in un arco di tempo brevissimo, una perla dietro l’altra) , per arrivare poi, dai concerti dell’inverno e dell’estate passati, direttamente a voi. A proposito, tra pochi giorni anch’io festeggio un anno di Ml: il più fossatiano anno della mia vita, forse quello in cui musicalmente ho imparato di più. Ma anche un anno straordinariamente denso di incontri davvero speciali, che a ripensarci ancora non mi sembra vero.  
Oggi quella raccolta non l’ascolto quasi più (se non in macchina), perché sentire un album intero dall’inizio alla fine è infinitamente più bello, tranne però che per quella canzone che ritrovo solo lì. Il talento delle donne mi piacque da subito in modo particolare, e alcuni versi, come “io che sognavo e ti sognavo/ credendo di pensare” o “meglio un ergastolo sentimentale/ che la vita innaturale senza te”, che mi si sono impressi nella mente in maniera indelebile.
Come per moltissime canzoni di Fossati, faccio fatica ad afferrare il senso complessivo del testo (ma forse questo è proprio uno dei motivi per cui, ancora al milionesimo ascolto, le sue canzoni sono così stimolanti...). Per certi aspetti la vedo un po’ come la risposta a La musica che gira intorno, quindici anni dopo, un guardare al mondo da un altro punto di vista, più positivo e rivolto al futuro anziché al passato (e forse non è casuale che nella raccolta siano messe vicine, rispettivamente come prima e seconda canzone). Al posto degli uomini per niente facili di allora, con le mani e le facce di chi non fa per niente sul serio, qui troviamo donne sperdutamente amate dal talento naturale, che con innocenza puniscono per le cose non avverate, ma con un coraggio, anch’esso “naturale”, non invocano alcun miracolo. L’uomo che teneva i suoi anni al guinzaglio oggi ha traslocato il tempo che è già stato e la strada di ieri su cui avresti potuto incontrarlo a patto che non fosse già rientrato, oggi è tutta accesa, ma difficilmente lo riporterà a casa, perché fin troppo diritta. Allora c’erano una musica senza futuro e un muro nella testa degli uomini poco allineati, oggi le sue mani profumano di gusto di selvatico e nessun pentimento. Insomma, nella mia personalissima interpretazione: all’uomo per niente facile di ieri, restio ad imparare qualunque lezione, è venuto in soccorso il talento di una donna senza la quale la vita sarebbe ormai così innaturale da rendere accettabile persino un ergastolo sentimentale.  
In particolare proprio questi versi “meglio un ergastolo sentimentale/ che la vita innaturale senza te” mi sono sempre sembrati sorprendenti nella loro perfetta essenzialità e straordinaria espressività. E, nella mia arbitraria interpretazione, li ho sempre sentiti profondamente miei. Non l’amore che ha chiuso gli occhi sul modo e vede solo la persona amata, ma la consapevolezza, propria di un amore più  adulto, che qualsiasi scelta comporta la rinuncia a tutte le infinite scelte alternative (da qui “l’ergastolo”, una parola quanto meno insolita da associare al concetto di amore). Ma l’amore che, conscio della straordinaria ricchezza del mondo, fa della naturalità con cui fluisce verso la persona amata la sua continua conferma. Che non risponde a scelte o calcoli di alcun tipo, bensì alla semplice naturalità delle cose, quasi fosse un amore necessario, e in tal modo risolve la tensione perenne tra il desiderio di esclusività e condivisione totale con un’unica persona e quello, mai completamente sopito, di sperimentare vite diverse accanto a persone sempre diverse.


J’adore Venise

E’ molto diffusa l’idea che Ivano Fossati sia unicamente un musicista e, in particolar modo, un autore di canzoni. Canzoni facili o pesanti, canzoni leggere o colte, canzoni belle o canzoni nonlesopportoproprio.. Comunque canzoni. E così, sistematicamente, ci si dimentica che Ivano Fossati è anche lo sceneggiatore, il regista, l’autore della colonna sonora e l’interprete di un cortometraggio, della durata di circa 4 minuti, dal titolo “J’adore Venise”.  
Un filmato che deve molto alle suggestive atmosfere di film anni quaranta, in cui in un bar non troppo pulito, da un bancone attaccaticcio, un uomo, duro e disilluso, fumando un sigaro e bevendo whiskey, fissa una donna altrettanto disincantata, con cui condividere il freddo e la solitudine di una notte. Però, senza cadere nella debolezza e nell’illusione dell’amore.  
Sì, “J’adore Venise” è prima di tutto un film muto in bianco e nero, che ci mostra un uomo che conosce bene le astuzie femminili [”un’occhiata da dietro la spalla so non vuol mai dire no”, molto lontana dal più umano e modesto: “ma sapere dove andare è come sapere cosa dire, come sapere dove mettere le mani”], tanto bene da non caderne vittima, tanto bene da sapere di poter nascondere la propria identità dietro un falso nome. Ma anche la donna, probabilmente, gli dirà di chiamarsi col nome che lui avrebbe voluto per lei quella notte... I due si guardano, si riconoscono, decidono di unirsi per quella sera e continuano a bere, alimentando un’atmosfera che avrà senso e durerà solo fintanto che la notte sarà notte. E infatti, dopo risate, sesso, musica “giusta” e altro alcool, arriva il mattino, che li coglie impreparati, diversi dalla notte appena trascorsa, ormai due sconosciuti, due maschere diventate di colpo inattuali e patetiche, due ombre alla finestra, ormai solo apparentemente ancora lì, ancora insieme [”così calmo e seduto pareva proprio stessi ancora là”, ripetuto ben tre volte, in crescendo]. Non dimentichiamoci, inoltre, che nell’unica frase di questo film muto c’è tanta saggezza, una vera lezione di umanità che, in questo contesto, può essere letta anche come una feroce autocritica o la massima espressione del disincanto: “i motivi di un uomo non sono belli da verificare, il problema è concedersi un po’ del meglio, un po’ di più”.  


Riflessioni in un giorno di luce nera  

In musica sono disperatamente sola. Nel senso che non ho mai conosciuto nessuno che condividesse  i miei gusti musicali. Prima di scoprire voi della Mailing List pensavo che Fossati lavorasse esclusivamente per me, figuratevi la sorpresa! Quando ho ospiti a casa mia - succede spesso perché mi piace aver la casa piena, beh almeno most of the times - di solito, prima di sedersi, mi dicono “Ma non dovremo ascoltare ancora una volta quel melanconico italiano, no?” oppure mi tocca ricevere buoni consigli del tipo “Promettimi di non ascoltarlo mai in un giorno scuro e piovoso di novembre, se no, una bella volta finisce che ti butterai giu’ dal balcone, mi raccomando” (vivo al sesto piano). Per non parlare della “gatta che muore sotto il divano”, come ho sentito apostrofare Joni Mitchell (che amo tanto). Di conseguenza ascolto musica quando tutti sono lontani o quando sono nel mio letto, da sola.  Ho conosciuto Fossati tramite la Bertè nell’84, all’età di 21 anni, nel senso che ho comprato il primo suo disco perché sotto i titoli più interessanti c’era sempre scritto “testo e musica: I. Fossati”. 
Tra i miei primi acquisti ci sono stati il suo lavoro con Prudente, “Poco prima dell’aurora” e “Il grande mare” che a suo tempo erano stati registrati da più di dieci anni. Mi sento molto legata a quei due dischi per vari motivi, soprattutto perche’ mi piace molto il giovane Fossati con i capelli troppo lunghi, la camicia inevitabilmente fuori dei jeans e la sigaretta nell’angolo della bocca, che non badava al modo di presentarsi o all’effetto che avrebbe fatto. E perche’ si sente molto forte in quelle due produzioni la sensazione che fare musica fosse uno spasso, sensazione che nei suoi lavori seguenti ho ritrovato solo nei dischi dal vivo. 
La registrazione de “Il grande mare” non sembra sia stato un lavoro quanto piuttosto un’avventura eccitante; del resto è un album imperfetto. Le voci a volte suonano come se fossero state registrate da un microfono posto sotto un cuscino. La tecnica delle registrazione degli anni settanta suona un po’ scadente alle nostre orecchie viziate dai cd ma come molte altre vecchie produzioni si rimedia a tutto questo con l’anima. Ed e’ evidente che ci sono arrangiamenti e sequenze che ricompariranno piu’ avanti nel tempo in alcuni brani di Not One Word.  
Oggi abbiamo un Fossati molto diverso, che fa musica molto diversa. Il segno piu’ evidente lo riscontriamo nel suo voler misurare l’effetto, nella musica come nella personalità. Ma questo non è un rimprovero: non vorrei fare a meno delle produzioni nuove, soprattutto quelle di N.O.W. E’ solo che spesso mi rattrista un po’ quell’impatto che il mondo in cui viviamo porta inevitabilmente: ci si muove con piu’ cautela, si cerca il momento giusto per uscire, si misurano i passi e il modo di presentarsi; quel tipo di specializzazione o di perfezionismo è anche nutrito dal desiderio di proteggerci. Personalmente non sarò mai indifferente al perfezionismo ma non riuscira’ mai ad essere cosi’  toccante come quando l’anima e’ messa a nudo.  
Potrei aggiungere alcune situazioni private che venivano accompagnate da questa canzone che ho scelto di adottare – Riflessione in un giorno di luce nera - come le notti insonni durante la mia ultima convivenza. Avevo tentato una vita borghese, con una famiglia nel senso classico del termine - in mancanza d’altro – insieme a un uomo a cui non volevo un granché bene: fu una decisione contro la mia natura e per la quale sono stata punita come un personaggio Shakespeariano, con la conseguente perdita della pace interiore e ritrovandomi vittima dell’insonnia. Ho passato due anni con al massimo due o tre ore di sonno per notte. In quel periodo mi sono persino laureata con un ottimo voto, non ricordo più come: probabilmente i professori avevano avuto pietà di me. Molte di queste notti che non volevano finire le ho passate seduta nel buio, spesso ascoltando musica a bassa voce per non disturbare chi dormiva; spesso ascoltando proprio questo brano, chiedendomi se fosse normale o lecito o solo possibile scappare via dalla situazione in cui mi ero trovata. Dopo due anni di dolore ho affittato un appartamento di tre camere, ho preso le bimbe sottobraccio e sono scappata via: a quel  punto non mi interessava più se fosse lecito o normale avere una seconda chance, era l’unica scelta possibile. 
Potrei anche parlare della mia prima notte nella nuova casa, passata in tre su un materasso per terra, con i miei libri, tutti ammucchiati contro i muri della grande stanza, perche’ i mobili li avevo lasciati a lui. E di come quella notte io abbia dormito stranamente, finalmente dieci ore. E di come il mattino dopo mi fossi sentita cosi’ grande. Questa non è certo una delle mie storie più gloriose ma mi ha permesso di imparare che a volte è già qualcosa riuscire a sopravvivere. In questo senso!  


Angelus

Anche per chi era già lì a sentire-vedere Jesahel, il momento della "scelta" è forse stato un altro. Prima uomini "per niente facili"  che ti propongono ascolti di venti anni di meraviglie dal Grande mare a Lindbergh, un po' perché sinceramente appassionati all'autore,  un po' come "collezione di farfalle" , come diceva qualcuno. Ma hanno avuto il merito di avvicinarmi all'ascolto di parole perfette per sentimenti, emozioni, realtà accettate o meno. Anche la musica ho amato, ma le parole ad un certo punto hanno iniziato a camminare con me, nel mio quotidiano, sempre perfette, lucide, svelanti. Sono entrate nel mio lavoro. A scuola le parole di Ivano erano nelle mie lezioni di educazione alla differenza, (mio fratello...) nella preparazione dei viaggi di istruzione a Genova, alle Cinque Terre ( Montale, Cardarelli, Questi posti davanti al mare, Chi guarda Genova), nella letteratura del Seicento (Cervantes e Alonso Chisciano), nel mito del viaggio, con Ulisse, Conrad e Panama. E tutto veniva meglio, più chiaro. La Disciplina della Terra.  Vorrei adottare "Angelus". Nella versione femminile. Per il suo delicato "stilnovismo", perché trasforma la donna, la stessa donna, da immobile a mobile, perché la fa "degna del suo nome" e quindi libera di desiderare. Beatrice camminava è rendeva muta per l'ammirazione ogni voce;  Angelus è muta come un calendario, come un pianoforte, quindi ha la voce possente del tempo e della musica, e le parole non le bastano  più. E' adornata e gentile ma non appare come un miracolo in terra, al contrario: lo aspetta dagli altri. Crede nei gesti e nella passione. Nella rinuncia al pudore. E le basta una luce, anche piccola.


Il disertore  

E’ una giornata primaverile, verso la fine di marzo del 1999. Esco da casa e salgo in automobile per recarmi in ufficio (in quel periodo mi dividevo tra due uffici) e comincio a pensare alle solite cose, cosa devo fare oggi (ho provato troppe volte a tenere un’agenda ma ho desistito, non ne sono capace), che problemi o soddisfazioni potranno capitarmi ecc ecc. La radio e’ accesa, si accende automaticamente all’introduzione della chiave. E’ una di quelle cose tipo la chiusura centralizzata o i vetri elettrici, una volta che li hai non puoi piu’ farne a meno. Solitamente ascolto radiomontecarlo, ci sono conduttori tranquilli, non i soliti urlatori  e trovo che siano molto bravi ad adattare la musica alle varie ore della giornata. Ma la mattina sono solito ascoltare un radiogiornale, appena alzato (spesso sono in ritardo a tra la discesa dal letto e la chiusura della porta di casa passano pochissimi minuti) ho come una voglia di notizie, un bisogno di sapere cosa e’ successo mentre io sognavo chissa’ cosa. Quella mattina la prima notizia e’ terribile: i primi missili e bombe sono caduti sulla Federazione jugoslava (Belgrado, Novi Sad, Prishtina...). Perdo ogni pensiero precedente. E’ vero, c’era da aspettarselo, ne hanno parlato molto ieri. Ma forse e’ la speranza che le cose non succedano, forse e’ che non credi che possa veramente succedere, o forse.... non so. So solo che cominciano ad imperversare nella mia mente brutte sensazioni. Schifo, incredulita’, rabbia, paura. preoccupazione tutte mischiate tra di loro. Penso alle persone che saranno segnate da quelle cose, avranno ferite, parenti uccisi, case distrutte, oppure avranno trovato loro stesse la morte. Non capisco, non capiro’ mai come degli uomini possano arrivare a tanto, come non riescano con le loro intelligenze a trovare delle alternative alla guerra, saro’ un utopista ma penso sempre che la guerra si possa evitare. Arrivo in ufficio ancora carico di quelle sensazioni. Penso a tante cose ancora. Penso che sono troppo piccolo per poter fare qualcosa, vorrei essere un capo di Stato importante per poter mettere fine alla guerra. Poi penso che se lo facessi mi ammazzerebbero. Poi penso che non so da che parte stia la ragione, in fondo i serbi stavano commettendo massacri.  Penso a circostanze strane, e’ appena entrato in vigore l’euro.... che sia l’america che ha paura dell’europa e voglia crearle vicino un grosso problema ? O forse devono svuotare i loro arsenali, devono provare armi nuove ? Sono combattuto. Mi rendo conto che sono tutte stronzate, che ci sono cose dietro a cui io non posso arrivare. Mi dirigo verso lo stereo compatto e non so se continuare ad ascoltare notizie o mettere un po’ di musica per non pensare troppo, posto che ci possa riuscire, a non pensare. Guardo la pila dei cd e mi viene in mente che in automobile ne ho uno in cui c’e’ una canzone molto particolare. Esco, mi reco all’automobile ed estraggo dal lettore il cd. Rientro in ufficio, la ascolto e mentre lo faccio ricordo che la sapevo tutta a memoria, l’avevo ascoltata fino alla noia. In quell’ufficio ho una lavagna di quelle alte come un uomo, con grandi pagine bianche. La uso quando devo fare dei piccoli corsi di informatica ai clienti dell’azienda per cui lavoro. Volto le pagine gia’ scritte finche’ non ne trovo una completamente bianca, intonsa. Metto la ripetizione automatica su quella canzone. Prendo un pennarello nero, data la circostanza non credo vi sia un colore migliore. Comincio a scrivere.  
“In piena facolta’……”  
L’ho amata subito quella lettera, penso che in quelle circostanze l’avrei scritta anch’io. Magari avrei scritto altre cose, sicuramente non sarei riuscito a scriverla altrettanto bene, ma sento di condividere in pieno quelle parole. In questo momento la dedico a tutti gli uomini che stanno indossando una divisa, in quei luoghi di dolore. Sono un piccolo uomo, penso. Ma voglio che da oggi tutti quelli che entrano in questo ufficio leggano quella lettera. E’ poco lo so. So anche che non servira’ a niente e che non potro’ fare molto di piu’. L’unica cosa che posso fare e’ continuare a sperare, a sognare che la parola guerra si possa usare soltanto parlando del passato. So gia’ che non sara’ cosi’. Per favore, lasciatemi almeno sognare, io armi non ne ho.  


Italiani d’Argentina

Fossati è stato il terzo autore che ho conosciuto, più o meno a 14 anni (fra qualche giorno ne avrò 25), qundo mi capitò in casa una cassetta di “La pianta del te”. Questo è il disco che mi ha aperto gli occhi alla sua musica e le sue parole, ma solo dopo poco tempo Discanto mi ha letteralmente travolto e segnato.  
Tra tutte le canzoni scelgo “Italiani d’argentina” perchè credo che sia la prima canzone di Ivano che mi abbia fatto commuovere. Più in la ce ne sono state altre anche più intense (Lindbergh, Sigonnella, La costruzione di un amore, la scala dei santi...) ma questa è stata la prima.  
Mi ha colpito la drammaticità della distanza (ricorrente in molte sue canzoni, come anche quella del “distacco”) che ha reso perfettamente, come se fosse un film senza le immagini, che riesce a coinvolgere ed emozionare anche chi (a 15 anni) degli emigranti non sa un gran che, richiamando immagini e momenti che forse si può provare anche se non si è emigrati mai, senza aver “navigato mai”. E un po’ a malincuore mi accorgo che spesso vivo come una persona che per riuscire a stare a galla è costretto ad andare (e restare) lontano dalle proprie passioni e ambizioni, ma che mantiene costantemente lo sguardo nella loro direzione, sperando di riuscire a vederle lì ferme, da lontano.  Sperando un giorno di riuscire a invertire il corso delle cose. E ritornare.  


Il passaggio dei partigiani  

Il primo incontro è avvenuto per la pianta del tè: bello, meraviglioso, ma è rimasto lì. All’epoca ero distratto o forse instabile, non ricordo. Ricordo invece l’arrivo di discanto, perché lo salutati con emozione e attesa. In quel periodo ero uno studente universitario tutto impegnato a farmi coinvolgere dalle mie colleghe fuori sede e dalle loro case meravigliosamente precarie e disordinate. Stavo cercando di liberarmi del mio personaggio di adolescente lacerato e sfigato – Jacopo Ortis mi chiamavano gli amici – a cui ero, e sono, grato e legato ma che a vent’anni vuoi lasciare velocemente alle spalle. Lindhberg lo ascoltai da psicologo in formazione e da fidanzato felice. I live, invece, accompagnarono, nella loro lungitudinale uscita, le fine della mia prima storia d’amore. Così le carte da decifrare divennero molte, parole da dedicare, inserendole in lunghe lettere ispirate. Macramé fu sfoggiato come pretesto di conversazione, tentai di condividerlo con un amore ignaro e sfuggente. Ero con lei a Caracalla, malgrado tutto, le rubai abbracci da legare a quelle note meravigliose. Il giorno dopo sarebbe sparita ma quella notte nulla avrebbe rovinato quella magia, anche se solo mia. Poi un incontro felice e un ricordo preciso: io che in una casa di campagna immersa nella neve, la notte di un capodanno tutto d’amore e passione, vinco ogni sua – e mia – resistenza, cantandole a memoria in un orecchio, accompagnato dal crepitio del fuoco del camino, ancora quelle carte da decifrare. Fu lei a farmi notare come quei versi nascondessero una qualche imperfezione: “a rubarti il passo e la figura, e amarti di notte quando il sonno dura”. E fu così che mi ritrovai di notte a rubare passi e figure e amarli di notte, quando il sonno dura. Poi la sincronicità volle che la disciplina della terra venne a ricordarmi il passato nel momento in cui m’illusi di riconquistare quel vecchio amore di Caracolla..
E’ fin troppo facile – mi dico – associare questi anni accompagnati dai versi di Fossati, con la mia storia sentimentale. In fondo i versi che mi rimangono dentro sono quelli di Alonso Chisciano, a suggellare la mia dignitosa resistenza contro l’annullamento dello spirito vitale di ogni anima, oppure i progetti e le aspirazioni di Lindhberg – contabile di sé stesso. E poi quell’anima da Jacopo Ortis che ora vuol dire sono amore, rispetto e orgoglio per la mia parte più sensibile e fragile, che ritorna in passalento o nell’uomo da solo… La civile inquietudine delle canzoni più apertamente politiche..
Ho sempre pensato che ciò che mi lega a queste canzoni sia la precisa sensazione che avrei potuto scriverle io. Qualcuno ha dato ad un altro i mezzi per farlo e, fortunatamente, il mezzo perché comunque arrivassero anche a me. Quelle parole sono mie, precise a dipingere la mia anima, come avrebbe potuto fare un ritrattista fiammingo con il mio volto.
Così mi colpì il passaggio dei partigiani. L’ho scelta anche perché ha una musica diversa dalle altre, che mi è sempre piaciuta. L’ho scelta perché dell’ultima (ma qual è mai l’ultima?) guerra, e delle guerra di Resistenza in particolare, mi ha sempre colpito una domanda: Che fino hanno fatto quelle persone che l’hanno vissuta? Sono ora quei vecchi incazzati, negli autobus, o dimenticati da modelli di consumo “giovani”, sono quegli occhi dispersi nei volti mascherati da vecchi? Spesso quando viaggio in metropolitana e incontro certi volti mi chiedo se dietro quegli occhi ci sono ricordi di momenti come quello raccontato nel passaggio dei partigiani. M’immagino che in loro batta forte quel ritmo e sferzino quelle note, l’immagino giovani impauriti e decisi. Mi ricordo delle pagine giovanili di Calvino, ultimo viene il corvo o il sentiero dei nidi di ragno.  Forse l’ho scelta perché la immagino come una canzone dimenticata e invece mi piace avere cura delle piccole cose…  …Non mi è mai venuto in mente di dedicare, al mio nuovo amore, carte da decifrare. Mi auguro che questo porto sia proprio il mio, il nostro. Io – vele ancora tese – proseguo il mio viaggio. Un’ultima cosa, me la ripeto sempre, la ripeto sempre: chi si guarda nel cuore sa bene quello che vuole e prende quello che c’è.


Se ti dicessi che ti amo


1981... Panama e dintorni... La canzone che chiude l’album. Una delle tante povere orfanelle, per questa ML.
Non sapevo niente dell’amore, io... Non sapevo che è ferite e pazzia, ponti che crollano sulla vita e porte irrimediabilmente chiuse, diavolo carceriere ed aguzzino. Perché non si dovrebbe dire “ti amo”? Io desideravo qualcuno che non mi lasciasse andare via. Ma i poeti sanno le cose prima di noi. Anch’io adesso lo so, ora che vorrei andare via e non posso, perché legato da un “ti amo” un giorno scappato dalla mia bocca, un giorno che, caso per caso della vita, ho incontrato qualcuno che voleva amarmi, che voleva curare le ferite che mi laceravano.
Ma ora vorrei aprire la mia porta, spalancarla, scardinarla. Vorrei iniziare a costuire quel ponte sulla vita per abbondanare questa riva desolata. Ora, ora che un diavolo maledetto mi lega ad una sedia ormai troppo scomoda. Bisognerebbe dare sempre retta ai poeti, perché i poeti sanno le cose prima di noi.
Ivano, non so se mai leggerai queste righe, ma ti ricordo una promessa contenuta in “Per niente facile”: che un giorno avresti ripreso in concerto questa canzone. Io continuo ad aspettare...  


Naviganti  

Adottare una canzone. Sembra facile. Una sola.. Il primo ricordo che ho di Fossati risale ai miei cinque anni. In piedi, davanti al televisore che stava trasmettendo il festival di San Remo: incantata a guardare un ragazzo che cantava in modo…particolare una canzone strana, diversa da tutte le altre, che non capivo, ma che mi piaceva. Jesahel?  Cos’era? Dov’era questo posto? Non riuscivo a staccare occhi e orecchie. Eh, quanto sono intelligenti i bambini ! Sentono istintivamente cosa è bello e cosa non lo è.  
Poi crescono e a volte  perdono questo istinto, vengono distratti da altre cose, più facili. La mia distrazione è durata quasi trent’anni. Poi un giorno,  il 3 aprile 2000, decido di andare, non so perché, ad un concerto di Fossati che si sarebbe tenuto al Teatro Accademia di Conegliano. Mi sono detta: perché no?  Proviamo, e speriamo di non annoiarci troppo. Che pioggia quella sera! E che piccola rivoluzione è partita per me da quel concerto, al quale ho assistito incantata, proprio come quando avevo cinque anni. Ne sono uscita stordita, con la convinzione di aver assistito a qualcosa di assolutamente perfetto, per testi, musiche, arrangiamenti, esecuzione. Quella sera ho cominciato ad ascoltare la musica, ma ascoltarla veramente. Ed a conoscere e ad amare i testi di Fossati. Forse non è un caso che questo sia combaciato con un periodo un po’ faticoso della mia vita, in cui ho avuto dei problemi di salute. Quando si sta male, dicono, si acquisiscono certe sensibilità, si diventa più attenti, a se stessi e agli altri, si recuperano certi valori. Anche perché ci si ritrova impovvisamente con molto tempo libero a disposizione. Ma io devo adottare una canzone precisa, vero? Dunque, lo scorso ottobre ho dovuto affrontare una operazione chirurgica. (scusate l’argomento poco allegro). Quando mi hanno portato in sala operatoria ero molto spaventata. Mi si è avvicinato l’anestesista dicendomi ”ora è tempo di dormire”. Ora è tempo di dormire? Cosa mi ricordava?  Ah si! “Ma ora è il momento di mettersi a dormire, lasciando scivolare il libro che ci ha aiutati a capire… “   Ed allora ho cominciato a cantare (con il pensiero). ..”ci hanno mandati lontano senza spiegarci bene e siamo stati male ma siamo ancora insieme. Grandi corridori di corse in salita che alzavano la testa dal manubrio per vedere se fosse finita. Allenati alla corsa allenati alla gara e preparati a cadere e a tutto quello che si impara” . E mi sono commossa per quelle parole che sentivo così mie e anche rincuorata. Credo di essermi addormentata con un bellissimo sorriso stampato in faccia.  Il medico avrà forse pensato a qualche effetto collaterale dell’anestesia… chissà. E allora, se devo adottare una sola canzone, adotto Lei, Naviganti, che mi ha cullato, ed è riuscita a farmi affrontare con il sorriso sulle labbra quello che sarebbe stato l’ultimo tratto di salita.  


Oh che sara’

Questa e’ un’adozione un po’ particolare, trascinata qui da quello per cui si parla in questi giorni (11 settembre 2001).  
Alcune canzoni ti colpiscono, ti avvolgono fin dal primo ascolto e ti creano un senso di familiareta’ dopo appena pochi ascolti. Puo’ succedere che in questo modo ti dimentichi di ascoltare, di cogliere le profondita’ del testo e ti concentri solo sulla musica delle note e del testo. Questo deve essere un grande difetto, ma io ci cado volentieri.  
La mia adozione non e’ propriamente una canzone di Fossati. Una canzone che vive con me da sempre, ma che mi si e’ improvvisamente rivelata in maniera obliqua, quasi con violenza, la mattina del 12 settembre, quando mi sono svegliato con le note di “Certe piccole voci” disco 1 traccia 10: Oh che sara’, che sara’..  
Alla luce “nera” di quel che e’ stato tutta al canzone ha assunto ai miei orecchi un nuovo significato. Ogni parola si e’ impregnata di nuovi significati di ambigue sfumature. E’ diventa la “colonna sonora” di questi giorni, nei quali sono preso a calci e pugli da sentimenti di grande intensita’ e contrasto: paura, rabbia, incredulita’, sfiducia, tristezza ma soprattuto incertezza. Che sara’? Riesci a capire e a fermare cosa ti gira nella testa e nelle parole? Quello che non ha MISURA RAGIONE e soprattutto RIMEDIO?

Non vi e’ decenza ne’ tantomeno censura. Non c’e’ governo ne’ vergogna ne’ giudizio: cosa andranno ad incontrare i nostri destini? In questo inferno..

So che questa mia interpretazione e’ tanto parziale quanto negativa, ma e’ quello che sento in questi giorni. Nel testo c’e’ ben altro: la natura della bellezza, l’idea di questi amanti per esempio. Ma il testo vive di immagini forti, come le emozioni di questi giorni.
 


La barca di legno di rosa  

La mia adozione, anche se una e troppo poco, e’ una canzone da “vedere”. si perche’ per me le canzoni sono da “vedere”
cioe’ io quando le ascolto le vedo come se fossi al cinema fortunatamente non succede con tutte le canzoni,ma solo per alcune.. quando l’altro giorno ho letto e riletto le vostre adozioni.. non so perche’ e per come mi e’ venuto in mente “La barca di legno di rosa (un gran mare di gente)” ricordo che quando ho ascoltato per la prima volta questa canzone subito l’effetto “vedere a occhi chiusi”. e’ scattato, prima ancora di leggere il testo, di capire le parole.. e’ una canzone che tutte le volte che l’ascolto con calma, da solo, in certi momenti particolari.. beh.. mi provoca un gran piacere..
Quando sento e vedo “passa una barca di legno d’ulivo / con sopra un pescatore e un pesce ancora vivo / e il tempo / l’insegue / il tempo li circonda / il tempo li dondola e gli fa l’onda...” e’ un qualcosa di speciale che non mi spiego.. “passa una barca di legno di pino / con sopra un gendarme e con sopra un assassino / e i loro pensieri sono legati insieme ...” la musica - le parole - i pensieri - “il tempo tac / il tempo non ci aspetta / il tempo tac / non ci rispetta..
La musica di Ivano mi provoca delle strane sensazioni e spesso non riesco ad accettare che mi circonda, non capisce.. anche se poi penso che ognuno e’ libero fortunatamente di ascoltare e pensare come vuole.. A volte pero’ c’e’ qualcuno che pian piano si ricrede.. e insieme.. capiamo al volo.. che una determinata canzone e’ li’ fatta x noi da ascoltare..  


Se ti dicessi che ti amo  

Il mio primo LP di Ivano fu “Panama e dintorni”,bella copertina che si apriva,con una foto del nostro dal finestrino di un treno americano (ai finestrini accanto c’erano i musicisti che avevano suonato con lui) e all’intero un poster(!!!) che lo ritraeva sdraiato con la chitarra elettrica in mano(roba da matti). La canzone che mi aveva spinto all’acquisto sconsiderato era:”Se ti dicessi che ti amo”... quel “caso per caso della vita,mi sono ritrovato in te”sintetizzava in maniera perfetta la mia difficoltà a dichiararmi alle rappresentanti del gentil sesso.. proprio così, quel “Se ti dicessi che ti amo / non mi faresti andare via”, era la chiave di volta dei miei pensieri. Era una canzone perfetta per me,per un ragazzo a cui crollavano i “ponti sulla vita”senza sapere il perchè, così la adottai... e Fossati alle donne piace,si sa,quindi il farlo conoscere e ascoltare era già un piccolo successo, le ragazze restavano piacevolmente stupite da quelle canzoni poco conosciute (aldilà de “La mia banda suona il rock” pochi ci andavano)e il figurone era garantito. Insomma,le sue canzoni erano la mia collezione di farfalle da mostrare in “Questi posti davanti al mare”, quando,adolescente,speravo di fare colpo su qualcuno(ma anche mia moglie l’ho sedotta grazie a Ivano). Canzone perfetta (oggi l’Ivano gaudente mai la canterebbe) arrangiata egregiamente, ancora oggi,a distanza di più di vent’anni,mi commuove e mi fa sorridere dei miei sedici anni. E non mi vergogno a dire che le poche parole d’amore che mi sono venute in soccorso, le ho rubate a lui,me le ha insegnate lui.. più di così, ad uno che “canta dentro nei dischi”, credo non si possa chiedere.  


Discanto  

Perche’ proprio su Discanto, dal vivo, c’e’ un’apoteosi di applausi? Perché. Prima la musica. Poi le parole. Perché è una visione. Perché in quell’incalzare ci troviamo tutto, alti, bassi, battiti del cuore. Tu-tum, tu, me, tumultuando. Tutto e tutti. E impersonale. Si vive, si balla, si gira, si fa festa...si, si, si...Sì. E si va avanti. Crescendo. Ritmi della terra. Finché è solo musica. Strumentale. Strumento per guardarci. Dal lato occidentale delle cose. M’incanto, mi disincanto. Discanto. La voce contraria alla polifonia di sottofondo. Quella sola voce che cambia poco nel coro. Ma al di sopra del canto dato. Che non si nega il “dis”. Il duro, il difficile. Il discorde. Il disallineato. Il per niente facile. Il dissesto, fronteggiato, per riassestare il mondo, il tempo sbandato, che ci tocca. Almeno il nostro. Perché di questo si vive, e di tant’altro. Di lettere partite che aspettiamo. Qui, siamo persone. Soggetto d’azione. Noi. Che aspettiamo, respiriamo. Il futuro che viene a darci fiato, l’affanno e l’ansimo dopo una corsa. A pieni polmoni. Dal naso.  Annusiamo l’aria da lontano, (pesce)cani da cerca (volati via dal guaito del mare). Aspettando, Godot forse. E intanto, (siamo) sorridenti, abbaianti. Alla luna. Per poi invece finire (tempo infinito) di un dolore a caso. Non è importante quale, e comunque è caso. Fortuna, fortunae. La fortuna di chi vive adesso questo tempo.  
E’ questo il bacio sulla bocca il morso d’immortalità il boccone di vento. E’ un programma, discanto. Di scantonare per i vicoli (i carrugi, i bassi, le calli). Tutti. Sentendo l’ombra scivolare sui muri. E dietro l’angolo, dietro una curva, improvvisamente, il mare. Fino all’apoteosi. L’apogeo, il parcheggio in cima al mondo: il mistero di essere così - soli.  
Ecco a me piace Discanto per questo. Alleanza ideale, controcanto. Mi sembra un programma. Una prefazione e una postfazione. In qualunque momento, anche sul palco, è sempre a tempo. Fossati ci arriva sempre, ci porta sempre il discorso. Logico e musicale. E’ un filo. Conduttore. Di rame. E’ energia, elettricità, ioni, sangue. La strana risposta di una non giornalista non musicale.


E di nuovo cambio casa

E’ del ‘79,ma l’ho scoperta tardi,come molte cose nella mia vita. La paura dei cambiamenti,il coraggio dei cambiamenti.Avere bisogno di qualcosa di diverso,di dare un taglio netto al passato,di scoprire un’aria nuova,di annusarla e avere voglia di mangiarne all’infinito,finche’ si e’ sazi,ma senza avere timori.O anche averli ma sconfiggerli. E di nuovo cambio casa per me parla di questo,di mettersi vestiti nuovi e sorrisi nuovi per riaffrontare la vita da capo,dopo cadute,escoriazioni e ferite vari.Per riaccettare tutto con calma,intanto che si arrivi dove si vuole,fintanto che qualcuno e’come me. Ascoltarla mi fa sentire come avvolta da una coperta che protegge contro i malumori della vita,contro i dolori ed il tempo,mi fa capire che si puo’ riuscire  a respirare a pieni polmoni e sorridere.  


Il cane d’argento

Ho spesso letto nella ML (ma esisto da poco) commenti negativi sul disco “La mia banda suona il rock”. In realtà io lo trovo divertente (sarà che lo ascolto da quando ero bambino). La canzone che adotto è compresa proprio in quel disco,  ed è “Il cane d’argento”. Nonostante non sia la canzone più bella di Fossati l’ho scelta perché al primo ascolto l’ho odiata, con quell’intro che mi ricordava la musichetta delle comiche di Benny Hill, quel testo criptico e apparentemente poco ispirato, quell’arrangiamento così pop. Essendo l’ultima canzone del disco potevo terminare l’ascolto alle prime note e fare finta che l’album fosse finito. Così per anni. Finché, tempo fa, l’ho beccata alla radio (!) e, non potendo cambiare stazione (ero in vasca), me la sono dovuta sciroppare tutta... Surprise, non è così male, anzi... “Ma passa il vento e passa il mare, persino il blu”. E’ stato un bel bagno!... Per giorni me la sono cantata e cantata in mente, la canzone si era riappropriata dell’attenzione che le avevo negato. L’ennesima conferma che il primo ascolto può ingannare e che nell’arte non bisogna mai essere snob... Merita l’adozione, no?


Dieci Soldati  

”Possiamo sederci qua sopra?” disse la piu’ grande delle tre ragazze arabe, guardando il soldato israeliano vestito di tutto punto, con un mitra lucente e degli occhi azzurri da californiano sotto l’elmetto mimetico. Dipinto con I colori delle macerie di quell’angolo di inferno, pensava. Per mimetizzarsi fra la polvere di gesso e il cemento armato, anche lui. Come se non bastassero loro di soldati armati e non bastassero gli altri, armati anch’essi. Il ragazzo soldato si giro’ in maniera naturale, come se la voce di ragazza lo avesse destato da un incubo. Guardo’ quell’insieme perfetto di occhi e capelli neri, leggermente raccolti sotto un velo leggerissimo, decorato da farfalle rosa e viola.  
Si incrociarono I loro sguardi, la ragazza e le sue due amiche si volevano sedere sotto le macerie del cinema del paese. Giusto per godersi l’ombra e la brezza serale che proveniva dalle colline di Gerusalemme. Il ragazzo rispose che non c’erano problemi, ma aggiunse, se sentite spari o se arrivano sassi, per favore correte via o proteggetevi. La ragazza piu’ giovane ringrazio’ in ebraico. Il soldato si stava gia’ girando quando torno’ ad osservare quelle tre muse arabe ed allora la giovane rispose che era ebrea da parte di madre, il padre era un diplomatico palestinese ucciso in un attentato a New York dieci anni prima. “Mossad” aggiunse furtiva, mentre il ragazzo abbassava gli occhi.  
La sera perfetta di primavera era stata forse turbata da quel rapido scambio di occhi e di parole, ma forse no. La dolcezza del clima, il colore grigio e argento delle foglie di ulivo che si muovevano all’unisono guidati dal vento lungo la valle scoscesa verso il villaggio, il canto di un ragazzo dentro un fornaio. Tutti questi fattori congiuravano insieme per far dimenticare che c’era una guerra in corso. Se uno avesse distolto lo sguardo dalla valle e si fosse mosso con gli occhi  verso l’ingresso del villaggio bombardato avrebbe visto questo manipolo di dieci soldati dietro una barriera di cavalli di Frisia e filo spinato. Un tumore di odio e rancore dentro la Terra Promessa. I luoghi di guerra sono come cancri o malformazioni di un corpo stupendo che e’ quello della Terra. Quando Londra fu devastata dalle V2 tedesche, I palazzi stupendi Vittoriani e le case a schiera Georgiane dell’East End furono sostituite da decine di tower blocks, case popolari oscene, formicai per assicurare sogni molesti alla classe operaia del dopoguerra inglese. Come suture orribili su un corpo dilaniato da una malattia incurabile. 
La ragazza piu’ grande continuava a guardare il soldato israeliano, pensava che era proprio bello, sembrava un attore americano. In quei film che lei non poteva guardare se il padre era in casa. Il ragazzo ricambiava gli sguardi, mentre qualche collega lo prendeva in giro che aveva fatto colpo. 
La serata stava declinando verso il tramonto, in un cielo terso e colorato come il velo della madonna dipinta nella facciata della chiesa cattolica davanti al cinema. La ragazza piu’ giovane pensava a quella suora che le aveva raccontato come secondo I cristiani, I colori della Vergine sono l’arancione e l’azzurro, come il cielo del mattino e della sera. L’alpha e l’omega. La fine e l’inizio, e di nuovo una fine per un nuovo inizio. Invece lei da quando era nata, non aveva mai visto fine all’odio e inizio all’amore. La bestia assassina che si era impadronita dei loro cuori, di tutte le anime che il suo sguardo da adolescente comprendeva, continuava ad esigere un tributo di rancore e di sofferenza.
Il soldato era stato raggiunto dal suo capo, che, avvicinandosi, aveva fatto un cenno di saluto alle ragazze. Conosceva quella piu’ grande, perche’ lei un giorno lo aveva aiutato a portare fuori dalla carreggiata uno dei suoi soldati che era stato colpito in fronte da un sasso. In quella specie di regola che un uomo colpito smette di diventare un obiettivo interessante. Un corpo immoto sul terreno diventa di nuovo qualcosa di santo e sacro, perche’ tocca il suolo sacro della patria. Come se Israele e la Palestina fossero stati abitati da milioni di Woodye Guthrie, dove tutte le parti uccidono non con la chitarra-arma del menestrello americano, ma con armi vere. E non uccidono fascisti, ma se stessi. Migliaia e migliaia di persone ad urlarsi che quella terra e’ la loro terra. Quell’aria e’ la loro aria. Poi, in una serata di primavera da orticaria, la terra ridiventa il locus imprescindibile dello scambio di sorrisi, mezze parole ed ammicamenti. Honoris Terra et Amoris Terra.  
L’aria diventa un bene condivisibile. Come I sentimenti.  
I dieci soldati del commando si erano radunati attorno al capo, lentamente. Aspettando istruzioni o un segnale di poter consumare il pasto. Le ragazze si facevano scappare qualche risatina a vedere quella grazia di Dio davanti a loro. Come una fotografia di un film di guerra. Dove erano anche attori. Volenti o nolenti. Attori e prime donne, primi uomini. Erano in quel film di guerra mentre avrebbero preferito essere in una bella commedia di pace. D’un tratto la ragazza mediana, con addosso uno zainetto salto’ dal muretto decisa, attraverso’ la corte del cinema e si mise a correre verso I soldati. Le due amiche non fecero in tempo a capire che stava succedendo che la ragazzina si era buttata in mezzo al gruppo di militi. Nel giro di pochi secondi un’esplosione fragorosa squarcio’ tutta la pace del mondo racchiusa nelle valli adiacenti, nel cielo da brividi e tutta la bellezza del cosmo inglobata nell’armonia dei rami di ulivo che si contorcevano sotto il sole quasi morto all;orizzonte. Che era scomparso dietro l’orizzonte, come nello stesso istante erano scomparse quelle undici vite. Dilaniate dall’esplosizione. Le memorie e le cartilagini esposte, diffuse, sparpagliate per metri. In un insieme incoerente di carne, sangue, brandelli di vestito e pezzi di metallo. Le due amiche, la giovane e l’anziana, erano state scaraventate contro un muro dalla forza d’urto. Ma erano vive. Si alzarono, nel gran polverone. Oscillarono, come ubriachi, verso un corpo che si stava rialzando anch’esso. Era il soldato dagli occhi azzurri,  miracolosamente incolume. Si era alzato in piedi proprio accanto ad un vecchio poster del cinema di Saving Private Ryan. La ragazza piu’ giovane non riusciva a distinguere la figura del soldato nel manifesto e quella reale del giovane. 
I tre si guardarono negli occhi, nel silenzio da pianeta Marte che aveva seguito il fragore. Sempre cosi’ dopo una bomba. Il rumore e’ talmente forte che per qualche minuto tutto rimane silenzioso, come se la rabbia avesse portato via con se il suono.  
Si stavano guardando, incrociando gli occhi, stavolta non per flirtare, in una specie di sogno erotico di appartenenti a razze che si devono odiare per costituzione, non in un adattamento israelo-palestinese di Romeo e Giulietta. Di nuovo come nemici, come impareggiabili rivali. Le ragazze temevano che il soldato le ritenesse responsabili della strage perpetuata dall’amica. Avevano paura che lui pensasse che loro ne fossero state a conoscenza, o che avessero altre armi od esplosivo addosso. Lui invece stava pensando al suo cane ed a sua madre, in California. Al suo desiderio di voler fare il soldato e di andare in guerra, per difendere la pace, pensava. Memoria, diceva al nonno, ebreo russo scappato in America negli anni 30. La memoria non deve scomparire. Dobbiamo ricordare. Eliminare I pericoli per ripartire. Ricostruire, ma prima smantellare le ragioni dell’odio, trovare i colpevoli.  
Pensava al cane ed alla sua collezione di dischi. Non pensava alla morte che aveva attorno, ma alle migliaia di alternative possibili a nascere, vivere e morire in quelle condizioni. Guardo’ le due ragazze, si rese conto in un istante di quello che era successo e si mise ad urlare. Nello stesso preciso istante nel quale le sirene delle autoambulanze dell’esercito israeliano e delle autorita’ palestinesi avevano cominciato a farsi sentire. La sua bocca spalancata sembrava che emettesse quel suono polifonico di sibili e di ululati. Come un mostro dantesco. 
Le due ragazze si avvicinarono al ragazzo, lui si avvicino’ a loro. Stavano piangendo. D’un tratto, si abbracciarono con una forza che avrebbe stritolato un asteroide. Consapevoli della immane tragedia della perdita di otto vite, nella pur grande e varia molteplicita’ delle innumerevoli variazioni dei codici genetici di tutte le razze che abitavano l’universo. Ma quelle otto variabili erano scomparse per sempre.  
Le ambulanze ed una torma di persone arrivarono sul luogo dell’esplosione. Ma quando I palestinesi si resero conto che I morti erano israeliani, tutti se ne tornarono via. Portandosi le ragazze che piangevano disperate mentre le madri e le sorelle le staccavano a forza dal giovane soldato. Che fu portato via in stato di choc in un’ambulanza grigioverde. Ancora urlando e tendendo le mani verso le due ragazze.  
La mattina dopo tutto era stato ripulito, I cadaveri tolti, il posto di blocco ricostituito e la zona transennata. Un carroarmato presidiava davanti al cinema, proprio dove sedevano le ragazze il giorno prima.  
La guerra continuava, nelle strade polverose. Ma continuava in tutto il mondo il conflitto fra bene e male. Esserci ancora e non esserci piu’ la ricerca di un volto familiare cui sorridere fra le migliaia di facce di palta che lambiscono il nostro cammino. La ricerca affannosa e guerrillera di una canzone nuova o da riascoltare ogni volta come se fosse la prima.  
Il desiderio di non stancarsi mai del volto dell’amata. Ed e’ sempre lotta, guerra, morte subita e inattesa, se non fosse altro che noi possiamo rinascere anche ogni giorno. Ci sono posti nel mondo dove anche tutta la grazia oscena e divina di un rapporto diventa un bene prezioso o introvabile. Dove la vita dei soldati vale meno di quella utile di un mezzo blindato. E questi posti sono tanti, sempre di piu’. Dieci, cento, mille soldati, scaraventati nelle periferie del mondo e negli anfratti della civilta’. Nelle pieghe della tolleranza e del rispetto. Sopravvivere per mesi per il gusto di un gelato al ritorno a casa. Vivere, sopravvivere, combattere. E il sax di una canzone killer. Per la battaglia di tutti I giorni, pensando che in fondo le nostre guerre sono sempre vinte e perse, ma sempre rinnovabili. Pensando a chi non se lo puo’ permettere.    


Jesahel  

Adotto Jesahel. Perché non la vorrà nessuno. Non la vuole nemmeno più Fossati. Quindi ha proprio bisogno di essere adottata. Non che mi sia mai piaciuta davvero tanto. E’ che non posso dimenticare lo sconquasso che provocò a Sanremo, nel lontano 1972. Immaginatevi di veder arrivare sul palco, tra un Peppino Gagliardi e un Nicola Di Bari, un gruppo scombinato di fricchettoni nostrani (ragazzi, ragazze: qualcuno canta, qualcuno suona, qualcuno non fa niente), con al centro un cocker vestito in modo improbabile che canta e suona il flauto. Certo non potevano passare inosservati! Il fatto è che il giorno dopo non si parlava d’altro: chi gridava al miracolo per il coraggio dimostrato, chi gli concedeva al massimo un mese prima di essere dimenticati. E, comunque, tutti canticchiavamo “Jesaheeel, parapapa...”. Naturalmente, un discreto numero di adolescenti si innamorò del cocker, anche per quella sua voce ruvida e screpolata, così strana per un ventenne.  
Non posso dire che per me fu un “colpo di fulmine”. Anzi. Quando poi (se non sbaglio) la musica divenne il jingle di un detersivo, mi sentii confermata nel mio scetticismo. Ma lui, Ivano, mi aveva colpito. Incominciai a cercarlo nelle canzoni che scriveva per gli altri (anzi le altre) e mi “toccava” sempre. E poi, quando ha cominciato a scrivere per sè, è stato davvero “grande amore”. Certo, oggi - a tanti anni, donne, viaggi, libri, case, pensieri, parole, note di distanza - è difficile credere che il ricciolone che ieri stava sul palco di Sanremo sia questo signore schivo, con meno capelli e più chili, che ogni volta che canta ci inonda di emozioni e ogni volta che scrive ci sfida da un gradino più alto del pensiero. Poco tempo fa ho scoperto per caso che, pur non avendo mai comprato il disco, ho Jesahel in un CD che raccoglie le canzoni di quegli anni. L’ho risentita. Beh, insomma.. alla fine mi fa tenerezza.  


E di nuovo cambio casa  

E di nuovo cambio casa è una delle canzoni che ho sentito più dentro e che non ho adottato io ma mi ha adottata e coccolata quando ancora non mi usciva la voce per parlarne. L’ho ascoltata per caso: tra le tante proprio questa  e in quel momento di decisioni.  
In questa canzone ho trovato quell’iniziale senso di  smarrimento di quando si guarda dentro la propria vita e non la si vuole più così come è diventata;  costruita magari proprio dalla spinta di quelli che un tempo sono stati i nostri desideri e ora non più...pare assurdo, vero? Ma questo dolore non è statico, scuote, smuove dentro... accende una affannosa e quasi  febbricitante necessità di andare  pur di non rimanere dove si sta sebbene anche a cambiar casa non si sa bene da dove partire: non sempre si parte per una avventura che sia la convivvenza o il matrimonio... a volte è per la fine di un amore, altre semplicemente per ritrovare se stessi.. (buffa e paradossale l’idea di trovar  trovare se stessi rinchiudendoci dentro  quattro mura magari nuove e gettar fuori la chiave  quando siamo solo noi che non siamo rinnovati ma avremmo bisogno di spazi vasti per la mente e per la vita, angoli di aria e di luce, di gente e di storie che incontriamo FUORI). Ma il bisogno di cambiare prevarica su tutto, sulla logica, sul temporeggiare ... e allora fare tutto di fretta, forza, cambiare, la parola d’ordine è cambiare, cambiare anche quel paesaggio a cui ci si era abituati dalla finestra migliore che avevamo, arrivare persino a voler cambiare la cosa più radicata e che uno si porta dietro sino alla fine : il nome... togliersi di dosso dal passato anche quello, cavolo!!! Cambiarsi faccia, cambiarsi vita, interrompere la propria storia da un indirizzo e rimandare al mittente tutto quello che è stato con la speranza di trovare un postino che sappia dove annunciarci altrove la meraviglia della vita, recapitarci l’allegria. E in questa foga di andare già si spera  di incontrare la gente giusta, quella che almeno stasera  saprà portarci a ridere e a bere. Ma a guardarsi bene dentro non si sa proprio nemmeno dove mettere le mani... neanche per tenersele sulla propria  povera testa nel  piangere. Perchè cambiare casa non è solo prendere le distanze da noi stessi, da un amore finito, da una famiglia, da una vita non generosa con noi: è trovarsi diversi... è soprattutto meravigliarsi di come abbiamo cambiato modo di pensare e di esistere. E’ riconoscere che non siamo stati in grado prima di tutto di creare dentro di noi quell’habitat in cui sappiamo muoverci meglio di qualsiasi appartamento perchè non si compre e nemmeno affitta: è il luogo dove abitano i sentimenti e dove hanno accesso solo le persone più care e dove c’è  sempre posto per tutti. Ma alla fine una casa che sicurezza ci da? A volte se non si era pronti si è avuto modo solo di conoscere gente diversa e l’amore che si aveva   tutto  qui dentro, non è arrivato. Le distanze e le vicinanze per me sono delle grandi illusioni solo  se  si parte per un viaggio come questo  senza essere padroni di se stessi prima che  di una nuova casa, padroni delle proprie aspettative, delle proprie forze..  
Ecco perchè amo questa canzone,forse la sento in modo troppo personale e mi scuso di essere andata fuori strada ma ecco il mio modo di sentirla e di adottarla. ed è anche il mio modo di cantarla. Una preghierina per questa povera ragazza amici, che sta iniziando a diventare allergica ai padroni di appartamenti che ora incontro più frequentemente degli amici, no  eh??? Oh cavolo però : ma se continuo a metterci tanto a trovarla questa stanza del c. potrei avere un futuro come agente immobiliare!!! Non ci avevo pensato... hai visto mai?!  


Di tanto amore  

Capita che le canzoni ti colgono in pieno, una frecciata diretta al cuore, perchè quei testi sono i  tuoi pensieri, con in piu’ una musica che li accompagna e che rende tutto più vero e inappuntabile. “Di tanto amore” non è questo tipo di canzone, perchè mi prende di striscio ,riempie un buco che era rimasto aperto nei miei pensieri: Io,  ‘dolcissima ed immortale ‘(bah), che non poteva cambiare. Ma  perché lui alla fine era cambiato? Quando alla fine ci siamo messi insieme era tutto magico. Era marzo del ‘94 e se vi ricordate bene, pioveva sempre, sempre. Alla fine di maggio pioveva ancora e queste goccioline d’acqua ci separavano dal resto del mondo. Gli amici, sempre scettici nei nostri riguardi, furono  risucchiati nel  nulla, scomparsi di botto.  Perche’? A nessuno era andato giu’ la stranissima storia a lieto fine. Lui  era stato un inguaribile fetente, introverso, pseudo guru, ed io una irrecuperabile folle, un po’ schizzata alle  feste.. alla fine cinica e amareggiata. Quale era la verità: quella nauseante dell’anno precedente o quella meravigliosa che stavo vivendo dopo, finalmente? “E’ inutile che continui a farmi queste domande” -lui diceva- “Quel ragazzo è morto!”  
Finalmente venne il caldo dell’estate e la storia andava avanti più che bene. Un’amica, la meno scettica del gruppo, mi disse che aveva scoperto una vecchia canzone di Fossati che mi poteva riguardare da vicino: me la  canto’ durante un rinfrescante bagno nelle acque del golfo di  Policastro.. Un’illuminazione, forse una conferma. Mi emozionai moltissimo!  
Ancora non conosco bene il sapore amaro.. i sapori li devi provare , non si puo’ descriverli. Certamente mi tranquillizzava il fatto che la lotta tra noi due era pari. Si puo’ soffrire in un modo, si puo’ soffrire in un altro: avevamo lottato entrambi, non avevo lottato da sola. Che sollievo! Adesso si che potevamo continuare....  


Amore degli occhi  

Perché.. perché è scritta sulla mia pelle, perché grazie al suo testo citato da un mio amico sono finita a sentire il concerto di Fossati al Ponchielli, quello del doppio live, era il 95 mi pare, perché poi l’ha fatta quella e credo che proprio in quel  momento lì mi sono riconciliata con me e con i miei errori e con i miei contrastanti sentori, con i miei sogni irrealizzabili, perché non ero la sola che ne avrebbe, con le sue sole capacità, o con la volontà e l’mpegno, consentito la realizzazione, perché a volte ho cercato di far finta che fosse vero, e invece era la solita bugia, perché alla fine è così e lo sapevo che era la persona giusta e il momento sbagliato. Lo sapevo, e sentivo che quella canzone parlava di me, del magone che avevo dentro che non si è mai sciolto e che neppure ora, dopo tanta acqua sotto i ponti non si è sciolto, ma è lì, fra le cose più care che ho.  
Ma anche adesso, che tutto è cambiato, che la vita ha preso una direzione rosea, che ho una vita affettivamente colma, ancora amore degli occhi è una canzone che mi spezza il fiato, mi fa sbucare due lacrimoni da cartone animato e mi stringe il cuore in una confortante consolazione, che pace non trova, ché non ne deve trovare, che fiato non trova che ne  ha per urlare al tempo di quanto l’amore è più forte del perdono, perché non ha nulla da perdonare..  
Amore degli occhi la adotto perché se non fosse scritta con caratteri di fuoco nella mia anima, io non sarei così, e forse se non fosse mai stata scritta o se non l’avessi mai conosciuta e amata, difficilmente avrei fatto pace con me stessa, e difficilmente riuscirei a scrivere queste cose. così. amore degli occhi..  


Invisibile  

Quando l’ho sentita la prima volta, appena tornata a casa con “La disciplina della terra”, ho pensato:”Questa Fossati l’ha scritta solo per me!”. Mi sono ridimensionata subito, ma non ho smesso neanche un momento di amarla.  
Lì dentro c’è molto più che la mia vita. C’è l’ideale riferimento di ogni mia azione e di ogni mio sentimento. C’è quello che, negli anni, ho saputo costruire sulla mia timidezza. Il rifiuto della visibilità, in un mondo in cui si mente per apparire. Il  farsi “piccola piccola” per voler bene dolcemente, senza grandi gesti. Con la profondità della trasparenza, con un amore che non pretende. Il non voler disturbare, il non voler interferire, il non voler invadere, perché il rispetto per chi incontri ti vuole invisibile. Il passo indietro che ti viene naturale fare quando qualcuno ti chiama alla ribalta, ti fa un complimento o ti riconosce un successo. Il rifiuto dell’agggressività e il disagio che provi quando invece sei costretta a mostrare i denti. L’amore per le piccole cose, fragili e leggere. Così sottili da sembrare, ai più, invisibili. L’allegria limpida, che nasce dai piccoli equilibri. E il pianoforte del dio silenzio: l’unico che posso suonare io, che vorrei ma non posso, perché sono così stonata.  


La costruzione di un amore  

Ho deciso di adottare “La costruzione di un amore” anche se è una seconda scelta. Ricordo che già prima di ascoltare questa canzone mi attirava il titolo, mi piaceva la parola “costruzione” e mi incuriosiva vederla associata ad un’ altra, ”amore”, di cui spesso nelle canzoni si parla come qualcosa che è magicamente ottenuto o altrettanto magicamente perduto per sempre ma non da costruire, innanzitutto. Non so perché ma avevo anche la sensazione che contenesse qualcosa d’ importante da ascoltare e capire per me ma senza fretta, avrei ascoltato e capito quando sarebbe venuto il momento.   Ed è stato proprio così, senza affannose ricerche di verità a buon mercato, di frasi illuminanti magari da trascrivere poi sulle pagine di un’agenda, ma nell’intimità di un momento di riflessione e analisi quando la mia gola aveva un bisogno autentico di parole come acqua per un assetato.  
Ricordo esattamente quel momento: un pomeriggio di aprile di molto tempo fa, io e mia cugina Francesca davanti una tazza di tè, io parlavo ripetendo sempre le stesse frasi come succede quando si cerca di spiegare qualcosa che non si è capito mentre lei ascoltava con occhi buoni, attenta e paziente. A un certo punto, forse esausta, interrompe il mio flusso di pensieri per proporre: “vorrei farti ascoltare una canzone” ed io pensai stupidamente e con il mio proverbiale scetticismo: ”sì vabbè, andiamo bene, io parlo di cose reali e tu, ancora alla tua età, mi proponi una canzone!” Per fortuna che la mia curiosità è sempre più forte dello scetticismo! Quando si accesero le lucette dello stereo e mi raggiunsero le prime parole rimasi meravigliata che fosse proprio quella canzone che mi interessava ascoltare, io non l’avevo cercata ma in un certo senso lei aveva trovata me!  
Per prima cosa restai impressionata da quest’immagine delle vene spezzate e del sangue che si mescola al sudore, un’immagine molto forte che rende però in modo autentico la fatica e la stanchezza dell’idea stessa di costruzione. Nonostante l’immagine cruda e il rimando implicito all’idea di sofferenza ho sempre interpretato queste parole iniziali in chiave positiva! Forse perché in genere non mi spaventano le cose difficili e complicate anzi mi stupisce a volte chi per evitare gli ostacoli cerca delle scorciatoie. Se qualcosa è bella, è importante, qualsiasi cosa essa sia, allora non solo vale la pena lottare ma è anche giusto e naturale che sia difficile e che sia necessario impegnarsi a fondo e soffrire anche un po’ per ottenerla. Ed io penso che specialmente in amore, questo sia giusto anche nel caso in cui la fatica e l’impegno non siano ripagati perché non si tratta di un competizione in cui alla fine c’è chi vince e chi perde ma si tratta di decidere se mettersi in gioco oppure no. Nel primo caso allora davvero si può iniziare a costruire qualcosa preparando i piani uno sopra l’altro con cura e dedizione lontano dai desideri e dalla vanità. E anche se è inevitabile guardare al futuro col timore che possa cambiare qualcosa all’improvviso, nel presente c’è ancora un istante di grazia da salvare, tanto felice che addirittura si fa fatica a credere che stia capitando proprio a te. Ma quel qualcosa di importante che mi aspettavo di sentire in questa canzone è stato soprattutto questo: “dopo si dice l’ho fatto per fare ma era per non morire si dice che bello tornare alla vita che mi era sembrata finita che bello tornare a  vedere e quel che è peggio è che è tutto vero...”  
Quel che peggio è che è tutto vero.. In queste parole i miei sensi di colpa che tentavo senza successo di spiegare, hanno trovato accoglienza e comprensione ed io mi sono sentita un po’ meno strana e cattiva di quanto avessi creduto. Anche vivendo un grande sentimento, una volta finito tutto ci si può sentire tornare alla vita anzi più forti e avvolgenti sono le emozioni più è forte il senso di liberazione. A dire la verità adesso non ascolto spesso questa canzone ma ho deciso di adottarla perché è legata a un momento tanto tenero da emozionarmi ancora. E poi questa storia contiene anche una morale! “Bisogna sempre stare ad ascoltare chi ha più esperienza!”  


Mio fratello che guardi il mondo  

Ho avuto, per anni, un nemico molto vicino. Ero innamorata e non ne vedevo la parte più oscura, quella dal lato brutto cui non si rimedia. Mi ero persa un po’ di vista, dietro a questa storia, a questo uomo. Nel senso che avevo più a cuore la sua felicità e il suo benessere che non il mio. Io mi accontentavo di come ero e di quello che facevo. Poi ho iniziato a percepire che potevo pretendere di più da me stessa e dalla mia vita, potevo fare di più e meglio e quello che avevo mi stava stretto: questo ha causato (all’inizio)  una ribellione, lenta - quasi impercettibile – ma costante nell’uomo che avevo accanto a me. Il mio desiderio di venire fuori lo ha sorpreso poi lo ha infastidito. Fino a giocare tanto sporco da farmi cadere ogni volta, con puntualità demoniaca, quel poco che avevo faticosamente costruito. E, sopratutto, fino a volermi convincere che non valevo poi così tanto. La fiducia che volevo riacquistare di me stessa era sempre più lontana da raggiungere. Se ci riuscivo, andava a picco. Poi ho creduto di aver toccato il fondo, quello vero. In effetti così era e allora ho pensato che più di così non potevo scendere. Potevo solo risalire. E così è stato. Da questo uomo ho preso misure sempre più consistenti e ho difeso con fatica la mia dignità. Ora non so dove sia. Per fortuna, invece, so esattamente dove mi trovo io, perché mi ascolto, mi piaccio un po’ di più  e mi faccio ottima compagnia. L’entusiasmo, che ho sempre considerato il sale della mia vita, è finalmente tornato ad avere un posto prioritario su tutto. Sono contenta per come sono.  
Sbagliata o no, sono così. Nel cuore degli altri la strada si è tracciata. Perciò, ora, la voglio fare tutta questa strada..  


Questi posti davanti al mare  

Quanto tempo può impiegare, e quali tortuose strade deve seguire, a volte, una canzone per entrarti nel sangue?
Io e F. arraffammo con mani rapaci “La pianta del tè” immediatamente al suo apparire sugli scaffali del nostro dischivendolo di allora, e ricordo che fu il primo album di Ivano che comprammo direttamente in CD; fummo subito conquistati da perle quali la stessa “La pianta del tè” ma anche e soprattutto da volpi, terre dove andare, uomini con i capelli da ragazzi, caffè lontani e tutto il resto, compresa “La costruzione di un amore” che per noi era, al tempo, un inedito... Non che “Questi posti davanti al mare” non mi fosse piaciuta, tutt’altro, ma di certo non era la mia preferita: una delle tante belle canzoni di Ivano, ecco, tutto qua, magari impreziosita dalla partecipazione di “quei due”. Passarono anni, non so quanti, e senti che ti risenti, non so come avvenne la mutazione nel mio rapporto con quella canzone, ma di certo me ne accorsi non più di 3-4 anni fa, all’improvviso: in realtà, “Questi posti davanti al mare” è LA canzone perfetta. Lo è per una resa musicale che trascina con sé ineluttabilmente il senso delle parole, lo completa, lo eleva all’ennesima potenza.  
E’ un’esempio meraviglioso di canzone immaginifica, dove le immagini, o le sensazioni, non sono solo descritte dalle parole, ma sono nei suoni stessi, e per questo ci coinvolgono senza scampo. Quando ascoltate “Questi posti davanti al mare”, dove siete? A parte il luogo dove incidentalmente vi trovate, che vi auguro essere un qualcosa in movimento, ma non siete, in realtà,  bordo di “quel” treno? Non ne sentite forse lo sferragliare (la chitarra ritmica), non sentite il ritmico sussultare delle giunture dei binari (la batteria), non sentite lo sbuffo degli stantuffi (le tastiere, e già, è un treno a vapore, anche quello...), non sentite il fischio che ogni tanto viene a scuotervi dai vostri pensieri (la chitarra elettrica)? Ragazzi, quella canzone E’ un treno a vapore che viaggia verso il mare, e il testo ci racconta qualcosa che già è in parte insito nella musica, un gioioso viaggio d’estate.  
Ed è un viaggio liberatorio, che segue un periodo di duro lavoro... Mi rimanda col pensiero a “Saluteremo il signor padrone”, dove ritroviamo non a caso un treno sul quale salire perché ci porti lontano dalla fatica, solo che in quella canzone la destinazione era la propria casa, in questa è il mare, un luogo quasi simbolico, l’idea stessa della spensieratezza a lungo agognata. Si respira una calda aria estiva, mentre questo treno viaggia verso il mare, e la combustione (commistione sarebbe poco!) fra musica e parole coinvolge e travolge misteriosamente altri sensi, perché io non solo sento il rumore del treno, ma vedo la verde pianura scorrermi sotto gli occhi, sento il caldo del sole sulla pelle, e sento persino gli odori dell’estate, erba falciata, fiori... fino all’odore stesso del mare, che del resto, si sa, si sente fin da Alessandria e che mi aspetto di veder comparire all’improvviso dietro una curva, e sì che ci vivo davanti, non mi dovrebbe fare un  grande effetto.
Ecco, anche questo è strano: il punto di forza della canzone penso sia la musica, penso che sia tecnicamente perfetta, eppure “Questi posti davanti al mare” è diventata una di quelle canzoni (poche) che non riesco a cantare, perché quando arrivo a quel punto, ed appare “dietro un curva, improvvisamente, il mare...” mi viene un groppo in gola e mi si strozza la voce. A volte mi vengono anche le lacrime agli occhi. Tu guarda che brutti scherzi fanno certe canzoni...


Invisibile  

Per tutti gli abbracci dati, per quelli che rimangono dentro e per quelli immaginati e sognati.. Per  gli occhi, capaci di scrutare, di guardare attraverso e oltre, e di non vedere e di  chiudersi restando spalancati. Per la  felicità nel sentirsi lontani rispetto  alla sapienza di chi tutto sa, tutto conosce, tutto analizza e spiega, senza spiegare o analizzare o conoscere o sapere mai veramente nulla al di fuori della propria presunzione. Per gli oltraggi ascoltati e mai sentiti  davvero, e per le parole buone assaporate e custodite , rievocate e riascoltate come fosse la prima volta. Per le appartenenze che non sono prigionie, non regalano tessere, non impongono dottrine, e conoscono le sfumature che ci sono tra il bianco ed il nero. Per la libertà che è connaturata alla capacità di sorprendersi e di lasciarsi stupire. Per me, per tutte le volte in cui riesco ad essere veramente me stesso. Per questa canzone, manifesto e preghiera, proclama e speranza.  


La madonna nera  

Adotto “La madonna nera” canzone che dalla prima volta che l’ho sentita mi ha travolta e affascinata per la sua forza per la sua dolcezza per la sua stranezza. Grande momento è stato quando al concerto dell’anno scorso Ivano l’ha cantata dicendo che ritrovandola tra le sue canzoni si era meravigliato di aver scritto una canzone d’amore così strana differente da tutte le solite canzoni d’amore. Adotto la madonna nera ma non posso dimenticare di dare comunque omaggio alla canzone che per prima mi ha fatto innamorare della sua musica la costruzione di un amore cantata come cameo finale al primo concerto di Ivano che ho visto quattro anni fa indescrivibile da lasciare senza fiato, omaggio anche a la rondine per me e mia cugina quando la cantiamo insieme chiudendo gli occhi lasciandoci trasportare prima che una voce dell’altra stanza ci chiami per andare a cena. Omaggio a una notte in Italia per la sua bellezza infinita e per quella sua frase che più di ogni altra sta nel mio cuore che più di ogni altra mi emoziona Il 10 dicembre ho visto il concerto e non credo ci sia bisogno di dire che sono uscita senza parole, mercoledì torno a vederlo non vedo l’ora di rimanere dinuovo senza parole..


La musica che gira intorno  

per me parlare di questa canzone non è “per niente facile”, è come parlare di un vecchio amico, uno di quelli che ti senti accanto dai tempi della scuola e con i quali si cresce e si diventa grandi, di cui si scopre un giorno, magari all’improvviso, che è cambiato, e tu con lui, ma ci si continua a voler bene e a camminare insieme. è per questo che, da almeno dodici anni, ne ho fatto il mio inno. dovunque mi trovi e con chiunque mi trovi quando la sento, la seguo cantando a squarciagola, nella versione dal vivo ci metto pure l’ah iniziale, enfatizzandolo alla maniera sua.. e credo che anche fossati la consideri la sua immagine in forma di canzone, tanto che non manca mai di suonarla in tutti i concerti cui ho assistito, ogni volta rivisitandola, ogni volta rimettendola e rimettendosi in gioco, come se ci volesse dire: questo sono io, cambiano i vestiti ma sono sempre io, “lo specchio ha la mia faccia”, che poi rassomiglia un po’ alla mia, metaforicamente parlando. fossati aveva 33 anni quando uscì il disco, la stessa età che io ho oggi; mi piacque subito, sentita dalla radio della tata e da lei cantata con trasporto nonostante tutto quello che, nel frattempo, il nostro faceva passare alla povera mimì, che la tata adorava; è una canzone che non è una bestemmia etichettare come “musica leggera”, perchè cattura e trascina come una buona, anzi ottima musica leggera; perchè è dedicata alla musica; perchè colpisce con immagini di dinamismo, di aerei dove si incontrano mani e facce di chi non fa per niente sul serio, di numeri che si cambiano e pensieri che si scordano, di un oggi che è già diverso da ieri; perchè non ha pretese, se non quella di porsi come manifesto di chi, da sempre e per sempre, si sente poco allineato; che invita a non allinearsi; perchè questo messaggio positivo ed ottimista ma anche scettico e cinico è per me una regola di vita: si può essere poco allineati nei giudizi, nel non mettersi in mostra, nel non ostentare le proprie conquiste; tra gli amici, ed è proprio qui che sta la grandezza della canzone, che in forma di musica leggera lascia intravedere in potenza la grandezza dell’artista nella sua maturità; capirne il messaggio, semplice e diretto e proprio per questo “per niente facile” da attuare, è la formula magica per accompagnare serenamente il passaggio dalla spensierata gioventù alle responsabilità dell’età adulta, l’importante è muoversi, seguire il cambiamento, vivere l’oggi come lo ieri di domani, dubitare, mai prendersi troppo sul serio; inutile rifiutare il cambiamento, il tempo che passa: altrove “passalento”, in questa canzone invece passa molto veloce; quello del passare del tempo è un argomento che a me affascina e fossati lo sa trattare come nessun altro; inutile, dice, tenere i propri anni al guinzaglio e fermarsi ad ogni lampione, altrimenti la nostra musica, cioè la nostra vita, è senza futuro, e quello che ci resta in testa è solo un maledetto muro, anzi quell’unico, solo, antico, maledetto muuuuuuuro (schitarrata finale)!!  
quando sento questa canzone è come se mi guardassi allo specchio; in un unico istante ripenso a tutti i momenti in cui io e lei siamo stati insieme, come due “naviganti”; la nostalgia per i momenti passati si fonde con la consapevolezza dell’età adulta, con la pacata serenità di chi ne ha viste tante, ben sapendo che tante deve ancora vederne, e preferisce dire: tu sei più bella di ieri vita, che a tutti ci fai battere il cuore.. è per questo che mi è piaciuto così tanto il finale western di questo tour, dove fossati imbraccia la chitarra, si prende in giro e si fa prendere in giro dai suoi musicisti, dal pubblico; in quei momenti ha mani e faccia di chi non fa per niente sul serio, si diverte insieme al suo pubblico; si vede un uomo di una certa età che sa stare magnificamente nella sua pelle di ieri, di oggi e di domani; che si rimette sempre in discussione; che ha capito che è questo il senso della vita; un uomo consapevole, che proprio per aver osservato questa “disciplina” che si è dato con questa canzone venti anni fa, oggi può riprendere in mano la chitarra e ricominciare da capo, con il sorriso sulle labbra di una vita vissuta intensamente e l’entusiasmo di sempre di fronte al domani, ai tanti altri aerei da prendere, numeri da cambiare e pensieri da scordare; come sempre così poco allineato; come sempre, “per niente facile”.  


L’orologio americano  

Macramé è stato prima di tutto un compagno di viaggio, di un viaggio particolare che ho intrapreso nel 1997, un anno sospeso nel tempo in cui l’esigenza di stare ferma era molto più forte di quella di andare avanti. Paradossalmente però proprio stando ferma ho iniziato a muovermi e a riprendere a camminare. L’immaginazione è stata il motore di questo movimento, senza bisogno di grandi spazi, usando il cervello e la fantasia e accettando l’aiuto degli amici di sempre: la musica e i libri. Ogni giorno mettevo la cassetta di Macramè nel mio vecchio stereo e quelle canzoni, scorrendo in sequenza continua, proprio come degli amici venivano a trovarmi per vedere come stavo e farmi compagnia.  
Secondo me la vera bellezza contiene inevitabilmente anche una dose di tristezza e questo vale sia per le cose inanimate sia per le persone. Mi sembra che tutto Macramé sia pervaso da questo particolare tipo di bellezza, una bellezza triste talmente penetrante però che una volta incontrata, non vuoi più dimenticare.  
La canzone che adotto è “L’orologio americano” perché rappresenta in maniera esemplare il genere di bellezza cui mi riferisco e perché parla del tempo con il quale ho da sempre un rapporto molto intenso.  
Di questo pezzo mi ha colpito questo ripensare malinconico al passato,sottolineato dall’andamento musicale, questo sguardo rivolto all’indietro nelle sforzo impossibile di rincorrere un momento perduto poiché il momento sfugge sempre e la durata degli eventi cambia secondo chi la percepisce. E’ quindi diverso il tempo scandito da un “orologio elementare” per cui si può ammettere senza difficoltà che “l’amore dura quel che deve durare”dal tempo individuale di chi “ha caro quel che è suo e la domanda e la risposta” e per questo vive “come dietro una porta solo un pò discosta”. [Questa frase mi somiglia!:-)]    
”Ma è così che la gente vive / è questo che la gente fa / è così che ci insegue / per un morso di immortalità”. Questa parte mi fa venire in mente una frase di Virginia Woolf, probabilmente la mia scrittrice preferita,ve la riporto: “La vita non è che una processione di ombre e Dio sa com’è che queste ombre le abbracciamo con tanto fervore e le vediamo allontanarsi da noi con tanta angoscia.” Quello che la gente fa dunque, per ottenere un morso di immortalità è inseguirsi cercando di afferrare alcune di quelle ombre che sembrano destinate a sfuggirci sempre, sottraendosi al nostro abbraccio. Perché? Forse proprio perché la ricerca di un qualcosa d’assoluto(un morso di immortalità) negli altri è destinata al fallimento e dato quest’esito così doloroso e difficile da accettare, allontanarsi è poi inevitabile.  
Il tempo non si afferra tramite il meccanismo degli orologi ma ogni volta in cui la nostra personale percezione riconosce e separa una tra le tante ombre di passaggio, una che ha qualcosa che permane nel ricordo come “labbra impigliate alla bocca” o uno “sguardo lampeggiante ad ore”. Sono istanti irreali, sono frammenti di tempo di cui ci ricorderemo senz’altro anche se in un’immagine(il cielo lucidochimico di una fotografia) sempre un pò più statica e sbiadita di quanto è realmente stata e per questo sempre inafferrabili.  


Una notte in Italia  

...è una notte in italia.  in un angolo di italia, campione d’italia, per l’esattezza. ma la donna, dell’esattezza non è mai stata tanto amica. la trova insopportabile, noiosa, affaticante. tant’è vero che stasera, invece di essere a letto perchè non si sente bene, è in mezzo a 400 persone, ad aspettare che inizi un concerto. il concerto di fossati, lungamente atteso, perchè canti una canzone che le è entrata subito nel cuore, che rievoca un episodio della sua adolescenza: un parcheggio, un ragazzo, le mani di lui che sanno ancora così poco dell’amore, i seni di lei,puntati dritti sul suo cuore. e la gente che non guida mai piano. e la confusione, l’imprecisione, l’inesattezza stinta di una prima volta.  
adesso la donna è in riva al lago, e pensa che anche questo è un parcheggio, anche questa è una prima volta, e si chiede cosa accadrà questa volta. i brividi a luglio. le luci sfiocano via, come arrugginite, sotto le lacrime, in questo tempo sbandato, in una notte che corre. i suoni rivelano di più di quanto dicano. improvvisamente, la donna ha una fitta al ventre, proprio là, dove inizia la vita, dove mesi prima si è spenta una vita. il futuro che viene.. a darci fiato. e la donna capisce. il futuro che viene. nel suo ventre dolente, in un parcheggio in cima al mondo, in una notte in un angolo d’italia.  
chissà se ha fiato.  
(non ne avrà abbastanza. ma la donna vivrà, amerà, proverà ancora, imprecisa e inesatta e imperfetta. finchè ce la farà, a prendere fra le braccia un’esistenza tremante...ma questa è un’altra canzone).


Lindbergh  

una mattina presto. meno quattro a milano. una donna scende le scale del metro della stazione centrale. scende, e intanto nel suo lettore cd ivano fossati canta non sono che il contabile dell’ombra di me stesso...se mi vedete qui a volare...
lindbergh sale nel cielo, la donna scende sotto terra. ma è come se volasse anche lei,perchè sa che quella discesa vale più di mille voli. difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto... 
la aspetta un pesce con le ali, volato via dal mare per annusare le stelle. lei sa che scende, e, quando ritornerà in superficie, si perderà trovandosi. ha in mano un sacchetto con due brioches al cioccolato. ne sente l’aroma. ne pregusta il sapore. e la musica la fa volare. le luci al neon diventano stelle. i visi dei passeggeri sono scie di vite.  
e la vuole fare tutta quella strada.. fino al punto esatto in cui si spegne. pensa. vive. ha i brividi. ma non sono i meno quattro di milano.  


I treni a vapore  

Sarà forse che il rumore di certi giorni ha lo stesso incedere di un treno a vapore, sarà che lo stesso treno a vapore ha una dignità antica, ci sporca di fuliggine mani e viso, e riesce ad emozionarci più di un Eurostar, sarà infine, che un treno a vapore ci riconduce al ritmo del tempo che scorre, più o meno regolare, ma sempre alimentato dalle nostre braccia con  una certa ostinazione sotto forma di carbone.. ecco che allora proverò ad adottare quella canzone del genovese ormai pingue, che parla di treni, guardacaso, a vapore che passano di stazione in stazione, di amori che dimenticano nomi e di immagini spruzzate di bruma e malinconia.
Proverò ad imbalsamarla, questa canzone, con l’aiuto di altre immagini, ad esempio con quella di un passeggero, che, non a caso, mi somiglia, sciarpa e cappello da pescatore, bavero alzato, spalmato nella sala d’attesa di una stazione color nostalgia. Appena sceso da un treno, di cui ricorda vagamente la stazione di partenza, e dimenticato quella di arrivo ma di cui, prova ora a ricordare tutte le impressioni del viaggio. Di questo passeggero, intento ora, nel vago barlume del mattino, a girare lo zucchero del suo caffelatte mentre pensa ai metri ed alla nebbia che deve calpestare per raggiungere al volo il prossimo treno, senza aver fatto ancora il biglietto, potremmo chiederci cosa cavolo centra con le immagini di quella canzone. Gli do una mano, forse perché è di famiglia.  
Di quella canzone mi lascio trasportare dal ritmo del suo incedere sempre più deciso, sul quale ricamare le impressioni del mio vivere e sognare, cadere e risalire. Ma di qualsiasi emozione e pensiero coloriamo il nostro viaggio, sempre e comunque, di stazione in stazione, di porta in porta è quello sferragliare continuo, deciso, singhiozzante, sbuffante sui binari dei nostri tentativi. Anche di notte, nelle lusinghe di un sogno, nello stringere i pugni per sentirlo più vivo, il rumore orgoglioso ed indeciso continua a macinare vita.. di stazione in stazione, di pìorta in porta, di dolore in dolore, il dolore passerà. Ora, io ed il mio passeggero, che siamo la stessa cosa, ci accinciamo a salire sul prossimo treno, pieni di curiosità e paura, ma chissa che viaggio sarà, quante immagini e storie da vivere e raccontare.


Panama e C’e’ tempo  

Con panama ho riscoperto fossati: ricordo, ero andato a trovare un amico scappato dai veleni milanesi e rifugiatosi in quella bella citta’ che e’ ancona (ah il mare e’ sempre presente, spesso mi chiedo come e’ che uno come me che ama la montagna piu’ del mare adori proprio 2 genovesi...) e’ stato ancora piu’ eccitante.. da quello splendido pomeriggio e’ iniziato un avvicinimanto a fossati, complice de andre’ con quello splendido album delle nuvole e l’ascolto di discanto.. c’e’ tempo e’  per me l’anello di congiunzione a quella giornata d’estate anconitana, ormai prossimo ai 50 ripenso con piacere e una sottile maliconia alle cose che bisognava sognare e che magari non siamo riusciti a fare fino in fondo, a soffermarsi e a raccontare le nostre storie ai nostri piccoli prendendo la vita con una sorta di calma e pacatezza che credo solo l’eta’ e’ in grado di darti, insomma c’e’ tempo ancora per altri sogni e avventure.. ho letto parole anche di dura critica verso lampo: credo invece che sia un bel disco (pardon: cd), solare ma mai banale, logica evoluzione di disciplina, album spigoloso e introverso oltremodo cui “doveva” seguire un disco di canzoni come lampo.. e che ci ha regalato quest’ultimo splendido tour.  


Discanto – l’album  

Si tratta invero di un’adozione  un po’ particolare perche’, piu’ che una canzone, io vorrei adottare un intero cd o, per i piu’ romantici, un album. Conoscevo gia’ allora, come tutti, Fossati. Per “come tutti” intendo dire che conoscevo “La mia banda suona il Rock”, “Jesahel” e quelle altre due o tre cose che, quando oggi il pubblico le invoca, Ivano si gira dall’altra parte.
Tre anni prima, nel 1987, grazie ad un caro amico, avevo conosciuto Fabrizio De Andre’ che, anche in questo caso, gia’ conoscevo per le sue cose piu’ famose. In un viaggio da Fregene a Roma, nella sua scalcagnatissima Uno rossa, le parole di “Non al denaro, non all’amore ne’ al cielo” avevano totalmente cambiato il mio rapporto con la musica, facendomi privilegiare decisamente i testi e -quindi, quasi inevitabilmente-la musica italiana. Fabrizio e’ stato, e’ e restera’ sempre la mia piu’ grande passione, musicale e non solo. 
Ma tre anni piu’ tardi avrei avuto comunque un’altra fortissima infatuazione, stavolta per Ivano. E questo avvenne sempre grazie ad un mio grande amico. Mi piace constatare che i momenti piu’ grandi di crescita personale (che poi coincidono inevitabilmente con la crescita nei gusti musicali) sono un regalo dei miei Amici piu’ cari, ai quali devo tutto, forse anche cose piu’ grandi di queste.
Oggi, purtroppo, ho perso un po’ di vista il mio amico Fabrizio, che e’ stato totalmente assorbito dal lavoro e sbattuto in giro per il mondo dalla Pirelli (e quando dico mondo intendo dalla Malesia al sudamerica!).
Ma in questi quattro anni, ho continuato a pensarlo, quasi ogni giorno. Pero’, da quando sono iscritto alla ML, sono contento di pensare a lui ogni giorno, ogni giorno. Perche’ lui mi ha fatto conoscere per primo il vero Fossati.
Dicevo, era il 1990 ed in quel periodo eravamo felici di riunirci nella sua piccola mansarda, per giocare, stare insieme e sentire musica. Un giorno, la solita situazione: gli amici, le ragazze, sguardi affettuosi e complici. Poi, ad un tratto:”E’ terra, compagni, e’ terra”... PAF! Un altro colpo come lo era stato tre anni prima “Un chimico” di De Andre’. Il mio amico Fabrizio-conoscendomi-si volta e mi chiede “Ti piace?”. Io, come sempre faccio quando qualcosa mi piace troppo, annuisco a bocca aperta, incapace di dire anche solo “Si”.
Il resto del pomeriggio fu interamente da me interamente dedicato all’ascolto del disco, trascurando forse un po’ amici ai quali tenevo parecchio e ragazze che indubbiamente mi piacevano tanto, avendo orecchie ed occhi solo per Fossati ed il mio amico Fabrizio. Che ad un certo punto disse:”Senti questa:Piumetta/che stasera conti le ore/Piumetta/che domani ti fanno sposare...”. Era il suo pezzo preferito. Io, invece, tornai a casa con “Lusitania” e “Unica Rosa” nelle orecchie e nella testa. E il giorno dopo, mi feci registrare “Discanto”, non per non comprarlo, ma perche’ all’epoca sentivo la musica quasi esclusivamente in macchina o nel walkman, e quindi su cassetta.


La disciplina della terra – l’album  

La prima volta che mi sono innamorata era di un uomo conosciuto in sogno e dopo è sempre stato così.  
Fu Paolo Fresu a colpirmi per conto di Ivano, quasi un decennio fa, con quella sua versione serica di Passalento ascoltata nella casa sulla spiaggia, col mare che frangeva pochi metri sotto le finestre. Ma fu solo questione di tempo… tre anni più tardi fui letteralmente folgorata da J’adore Venise cantata dal vivo al Ponchielli, una sera d’inverno, mentre me ne stavo con gli occhiali al soffitto ad innamorarmi del colore delle cose. E quella sera quando, rientrando a casa, stavo stracciando il cellophane che avviluppava quel cd in bianco e nero (e giallo zabaione), già sentivo quella piccola scossa dall’andamento di moto ondoso in aumento che conobbi in quella lontana sera d’inverno.  
Era il momento, il momento giusto e perfetto, non so come spiegare, era venuto il momento di sentire quelle musiche nuove con quelle poesie che mi aspettavo di sentire, perché mi stupissero e mi lasciassero inerme e serena.  
L’Artista è riconoscibile come tale quando parla la nostra lingua, ogni singola lingua parlata da ciascuno di noi, non il contrario. Fin dal primo ascolto il vomito preciso e suadente di quelle parole, di quelle verità sognate è certo, intuibile, mi avviluppa dal primo attacco di rullante, dal primo rigo suonato con la mano sinistra, dalla prima strofa.., infettivo, perché anch’io da tempo mi sento colpevole di aver nutrito l’amore e altre deviazioni, come la malinconia, come la nostalgia.. Mentre il silenzio faceva la sua prima, schiva comparsa. E calore e freddo, freddo di ferro e di solitudini e domande e incertezze e amarezze, valanghe d’amore contro bicchieri d’aceto. E piccoli avvertimenti invisibili, mimetizzati, come quello di non confondere il sapere col sospetto, nè le regole nè la disciplina, con il respiro degli archi in sottofondo come il respiro che muta in sonno, ché non si può disegnare l’amore, apocrifo per natura, attenendosi a schemi canonici e non basta desiderare né aspettare. La piccolezza della presunzione umana sta nel supporre di aver stigmatizzato tutto ciò che può essere dipinto a parole. Ma non si può descrivere ciò che, a ragione, resta invisibile. Così quei buoni Maestri, di quelli che  non ne esistono quasi più, così il silenzio che compare per la seconda volta, così la Grande Arte e la luna nella sua nterezza, l’amore nella sua vera essenza e consistenza, l’ambizione muta e miserabile di un cacciatore metaforico. Ma che bellezza in tutto ciò, una bellezza straordinaria nella sua dimensione invisibile e per questo scevra da ogni cliché, liberamente interpretabile e fruibile. Siccità vissuta da esistenze in balìa del dolore, riarse e rinsecchite da avitaminosi temporanee ed inevitabili che portano alla deriva senza patenti che insegnino a navigare nei sentimenti d’altura, velieri stanchi descritti inesorabilmente dal fraseggio della tromba del nostro “Chet” nazionale, velieri stanchi in cerca di un porto sicuro da chiamare per nome, da chiamare casa.  
Basta una luce, anche piccina, basta a chi sa farla bastare, basta a ricordare le carezze dimenticate con parole-femmina che ricevono e attendono miracoli. E il silenzio, ancora silenzio, che stavolta si nega nelle bocche libere dal bavaglio, vuote come i giorni di vento. Il picco massimo della dolcezza struggente e malinconica e stanca mi raggiunge avviluppandomi con domande che stracciano l’anima, che commuovono la gola, annodandola lentamente.
Che tempo è questo che strada e che ora del giorno è  E quali parole servono oggi a chi non sa scrivere che lettere d’amore. E, infine, dopo lungo navigare e una moltitudine di assi sfilati dalla manica, di sentimenti agghindati, di cappotti  che si allontanano nel buio e di ultimi baci, di mali da lenire carezzando e di disegni supremi, infine, la terra all’orizzonte tenue di nuovo appare, componendosi nel silenzio di un finale quale ringraziamento al tempo che consola e guarisce con il suo moto perpetuo impossibile, per fortuna, da gestire.
U tempu u passa e a morte a vèn, beati quelli c’han faetu du ben.  
Mi guardo ancora nello specchio.. e vi saluto brava gente.



Lindbergh

Lindbergh, una canzone che nel disco omonimo e’ suonata in solitudine da Ivano. Un testo, una canzone possono essere interpretate in vario modo, possono essere capite in vario modo, e possono dare a noi emozioni e pensieri diversi, a seconda del periodo in cui l’ascoltiamo. Io ho conosciuto la musica di Ivano nel 1995 (lo so che e’ da poco) con una canzone presente in una raccolta del Premio Tenco “confessioni di Alonso Chisciano” canzone di cui mi sono innamorato  subito, era diversa, bellissima e ancora oggi mi da’ i brividi. Poi ho conosciuto tutto il resto, album nuovi e vecchi.
Ho pensato di adottare LINDBERGH perche’ e la canzone che ho sentito piu vicino a me per motivi sia musicali sia EXTRAMUSICALI GONFIANDO TALE CANZONE E RIEMPENDOLA DI SIGNIFICATI SINO A FARLA SCOPPIARE. Diceva Adorno che la Musica E’ UN FATTO SOCIALE TOTALE. Il viaggio nelle canzoni e quasi sempre usato come metafora della vita, quindi l’arrivo e’ sempre uno: la morte. Il problema sta nel viaggio diverso che si fa, oppure nella diversa fine del viaggio, a volte per motivi naturali, accidentali o volontari.

Non sono che il contabile
dell’ombra di me stesso
Qui mi affido alle parole di Fossati:< “lui sapeva di essere piccolo, solo il contabile del’ombra di se stesso”>, siamo tutti piccoli contabili di noi stessi, contabili invisibili.”

se mi vedete qui a volare
e’ che so staccarmi da terra
e alzarmi in volo
come voialtri stare su un piede solo
”Pur essendo solo piccoli contabili di noi stessi, siamo tutti diversi, per me staccarmi da terra e alzarmi in volo significa morire, con volonta’ e scelta razionale,( tant’e che vengono usate parole che rafforzano la volonta’, staccarmi e alzarmi ) come per voialtri e facile stare su un piede solo.”

difficile non e partire contro il vento
ma casomai senza un saluto
”Difficile sono le avversita’ della vita, e la vita stessa ma, ancora piu’ difficile e partire (cioe’ morire) senza un saluto. Quando ci si suicida l’ultimo scherzo della vita e che non possiamo salutare nessuno (per ovvi motivi). Questo tema della morte e della solitudine e presente nei “sepolcri” Foscoliani “sol chi non lascia eredita d’affetti poca gioia ha dell’urna”.

non sono che l’anima di un pesce
con le ali
volato via dal mare
per annusare le stelle
”Un pesce con le ali, uno che e nato in un posto sbagliato (o forse e “sbagliato lui”), a volte ci si ritrova a vivere come dei pesci con le ali ovvero in un posto che non ci appartiene, oppure che non apparteniamo noi a lui, il divorzio tra noi e la vita di cui parlava Camus, e per cercare il nostro posto (forse inesistente) voliamo via dal mare (che non ci appartriene) e andiamo ad annusare le stelle (ce ne andiamo senza un saluto, in cielo per chi crede, per chi non crede diventiamo polvere o metaforicamente STELLE).”

difficile non e’ nuotare contro la corrente
ma salire nel cielo
e non trovarci niente
”Qui viene nuovamente esposto il concetto delle avversita’ della vita e del fatto che quando stiamo per morire non abbiamo certezze di cosa troviamo forse niente, si spera la tranquillita’).”

dal mio piccolo aereo
di stelle io ne vedo
seguo i loro segnali
e mostro le mie insegne
”Nella mia vita di stelle ne ho viste tante (qui il significato di stelle cambia, stella puo essere un’idea, una strada, una possibilita’) seguo quella che mi sembra piu’ giusta in base al vissuto.”

la voglio fare tutta questa strada
fino al punto esatto
in cui si spegne
la voglio fare tutta questa strada
fino al punto esatto
in cui si spegne
”Qui ritorna il concetto di morte, di viverla, e di vivere la breve vita fino al punto esatto in cui si spegne, cercare di  morire, arrivando fino al momento finale lucidi, coscienti e razionali.”

Probabilmente anzi sicuramente oggi questa frase e questa canzone le interpreterei in maniera diversa ma, questa canzone l’ho ascoltata per tanto tempo dandogli questo significato. Forse come canzone mi apparteneva piu’ allora che non adesso, quindi ho ritenuto giusto lasciare la vecchia interpretazione.